Gran Torino

Il prode soldato e l’eroico patriota, che ha fatto fuori nel 1952 diciassette giovani coreani ammazzandone in combattimento a colpi di vanga anche qualcuno inerme e arreso, vedovo di una moglie molto amata, in totale rotta con i due figli maschi sposati e relativa famiglia, alla fine di una vita oramai inutile e solitaria, la sacrifica per salvare quella di un ragazzo asiatico suo vicino di casa in balia di una gang di teppisti di quartiere. Una conversione a 'u' che più radicale non si può, una ammissione di responsabilità e colpa per i tanti storici crimini di strage e guerra nel film pienamente riconosciuta e dichiarata, una redenzione piena. 

Trasferendo piani e dimensioni, gli USA a dominanza wasp, i bianchi conquistatori e massacratori di pellerossa prima, di musi gialli poi, la razza superiore da sempre razzista arrivata al capolinea della megalomania, dell’ipertrofia, dell’insaziabile e bulimico accumulo di ricchezza, si arrende e getta la spugna riconoscendo e consacrando il primato alla nuova era inaugurata dalla vittoria elettorale del nero – multietnico e multirazziale, democratico e sociale, solidaristico e ambientalista – Barack Obama. Il miracolo lo mette in scena Clint Eastwood dall’alto del suo carisma di 79enne di lunga carriera (l’unico artista di successo che invecchiando non abbia messo su pancia), e che traghetta con Gran Torino la parte migliore della storia americana da un approdo deragliato alla nuova direzione giusta.

L’uomo americano classico, nella storia sempre pronto e risoluto nell’accoppare qualcun altro, si mostra qui altrettanto pronto, per proteggere la giovane e indifesa vita altrui, a sacrificare se stesso. Oggi, dice il film, urge mettere in campo un modello di condotta che sappia contrastare e vincere il disorientamento delle nuove generazioni. Clint Eastwood propone come modello l’homo faber leale e sincero, onesto e coraggioso (la Gran Torino è il modello di auto Ford che lui contribuiva a realizzare lavorando alla catena nel 1972, e che conserva nuova e fiammante in garage); che dice quello che pensa e quello che pensa fa; che non cede alla prepotenza; che scende in campo a viso aperto a difesa dell’oppresso e del debole, dell’orfano e della vedova; che ama fare bene, in libertà e autonomia, quello che serve; che aggiusta, ricicla, ripara, non getta e non spreca; che parla poco per dire ciò che è strettamente necessario; che ha della vita un’idea etica, solidale e sobria; che gli viene l’ulcera e letteralmente il sangue alla bocca a contatto del consumismo modaiolo e sprecone, del mito del successo professionale e del denaro a tutti i costi; che è prudente e diffidente, ma comunque, malgrado tutto, curioso e disponibile; che borbotta e rimprovera arcigno contropelo, ma lo fa come modo utile per relazionarsi, capire meglio gli altri dalle reazioni, conoscere  e giudicare; che patisce l’ipocrisia, l’inautenticità, la doppiezza come la peggiore pestilenza; che rivendica la necessità di un codice di condotta etico esplicito, senza del quale non c’è presupposto per qualsiasi relazione e confronto. In un’epoca di crisi della capacità degli adulti di educare i propri figli, in Gran Torino Clint Eastwood ci ricorda la necessità che tra generazioni ritorni a funzionare e ad essere trasmessa l’arte di affrontare le complicate difficoltà del mondo, di ritrovare il coraggio di degnamente viverle. E scusate se è poco.

Rimarchevole è poi nel film la scelta dell’attore giovane che interpreta la parte ingrata dell’imbranato ragazzo asiatico. Normalmente, in questi ruoli espressione di una adolescenza ondivaga e ingrata, i registi scelgono giovani attori sottilmente o esplicitamente sexi. Non avendo molta sostanza nella parte e nell’esperienza, che almeno effondano il carisma della bellezza. Qui il ragazzo asiatico prescelto è esteticamente banale e foruncoloso, che a incontrarlo per strada non attirerebbe un’occhiata: di realistica coerenza, quindi, per la parte. 

E infine, in sottofondo ai titoli di coda, segnalo la canzone cantata con voce malferma, semistonata e rauca dallo stesso grande attore. Suona come un saluto di addio, un ciao appena accennato da una mano un tempo vigorosa e oggi malferma e ripiegata. E ad ascoltarla, per quello che in questo film e in tanti precedenti ci ha regalato, grati ci si commuove.

Gian Carlo Marchesini