Kolya, di Jan Sverak

Ambientato a Praga nel 1988, alla vigilia del crollo del Muro di Berlino, realizzato nel 1996, visto oggi, oltre dodici anni dopo la sua uscita, il film, dello stesso regista di Vuoti a perdere in questi giorni in circolazione con buon successo di pubblico, ha vinto nel 1997 il Golden Globes e l’Oscar per il miglior film straniero. E, anche a rivederlo oggi, se ne capisce il perché. L’attore che nel film interpreta il personaggio principale – Louka, scapolo e donnaiolo impenitente, violoncellista estromesso dalla Filarmonica di Praga per la sua irriducibile indipendenza intellettuale e politica,– è nella vita anche l’autore della sceneggiatura del film, nonché padre di Jan, il regista. Padre e figlio, quindi: tandem perfetto per un film che è un inno – privo di enfasi retorica, reso con mano sapiente e delicata secondo gli stilemi di una commedia agrodolce - alla nascita di un legame forte tra un uomo adulto che per dedicarsi anima e corpo alla musica ha scelto di non sposarsi, e un bambino di cinque anni piantato in asso a Praga prima dalla madre russa che scappa a raggiungere l’amante in Germania, e dopo qualche giorno, per un improvviso coccolone, anche dalla nonna. 

Così come succede ne Il matrimonio di Lorna, anche in Kolya il deus ex machina che mette in movimento il racconto è il matrimonio combinato per soldi dalla mamma russa di Kolya, che ha bisogno della cittadinanza ceca per potersi recare senza problemi in Germania, con il violoncellista Louka,  tormentato dai debiti e quindi, pur di incassare una bella somma,  disponibile.

L’idea forte del regista - e del padre sceneggiatore, nonché attore principale - è quella di raccontare il nascere e l’affermarsi di una autentica e forte relazione padre-figlio proprio là dove si sarebbero dette mancare tutte le premesse. E la sfida di far credibilmente affermare un legame così fondamentale - dentro un gruppo di adulti incasinati ed egoisti, in un Paese dominato da un sospettoso e occhiuto regime poliziesco, e dalla presenza dell’esercito occupante russo che sfila minaccioso per le strade con le sue interminabili file di carri armati - viene affidata all’irrompere improvviso di un bimbetto vitale, il cui impeto sovversivo funziona da elemento perturbante e insieme catartico. Si potrebbe perfino sostenere, a livello di lettura simbolica, che è un po’ tutta l’armatura burocratico-militare di un sistema/paese che viene alla fine scardinata dall’effondersi mercuriale di questo bimbetto famelico di attenzione, esplorazione, protezione. Ma, nella costruzione non facile e non semplice del legame necessario tra due così lontani e diversi, quali sono nel racconto i punti di svolta decisivi? Il primo, lo smarrimento drammatico del bambino tra la folla caotica della metropolitana; l’altro, la sua improvvisa febbre altissima con il rischio di una meningite. L’irruzione del fantasma della perdita e della minaccia di morte produce una accelerazione rapida e definitiva nella saldatura del legame. E’ da allora che il bambino chiamerà Louka, fino a poco tempo prima illustre sconosciuto, “papà”, e Louka sentirà a sua volta il bambino come prolungamento prezioso su cui investire risorse ed energie. 

Alla fine della storia, nel film tutto si scioglie e risolve: crolla il Muro di Berlino, gli occupanti se ne vanno, e mentre Praga festeggia in piazza la libertà con la Filarmonica ricostituita a suonare la musica di Smetana, mamma e bambino russi ripartono in aereo per Mosca. Le immagini finali sono quelle dello sguardo del bambino che dal finestrino dell’aereo  contempla le nuvole in cielo, e la sua voce tenera e incerta che canticchia in sottofondo la filastrocca prediletta. Quasi a esortare: cari i miei uomini, rinunciate alle logiche di dominio e potenza, bandite ogni superbia e arroganza, dedicatevi a proteggere e coltivare ciò che è realmente prezioso, a far crescere al suo meglio la vita nuova: perché questo è il senso e lo scopo della vostra esistenza.  

Gian Carlo Marchesini