L’onda

Sulla spinta del '68 – prima avevo incontrato don Milani, l’Abbé Pierre e Danilo Dolci - anch’io, come migliaia di altri giovani, agli inizi degli anni Settanta ho fatto parte di un gruppo politico che si voleva, come valori e concezione della vita,  alternativo e rivoluzionario rispetto al sistema sociale e politico esistente - e che non a caso, in sintonia e coerenza con una radicalità generosa, aveva scelto di chiamarsi Lotta Continua.

Ho aderito a quella formazione, e non ad altre, in quel periodo storico numerose, perché LC aveva carattere di movimento fluido e aperto, non operava con una intelaiatura organizzativa gerarchica o con un bagaglio ideologico e dottrinario rigido e settario, ma era invece permeata di un afflato libertario e umanistico, di una identificazione e condivisione dei bisogni degli ultimi, degli sfruttati e degli oppressi ovunque essi fossero, con i quali si identificava, per il riscatto dei quali  si impegnava e combatteva. Comunque, pur in presenza di tale largo e rincuorante afflato solidaristico, anche LC aveva un simbolo – uno stilizzato ma robusto pugno chiuso – usato come logo identitario, aveva l’inno che si cantava a squarciagola nei cortei e nelle manifestazioni, il servizio d’ordine a difesa delle sedi e delle manifestazioni di piazza, una identità forte e fiera costruita sull’appartenenza ad una organizzazione agile e sufficientemente strutturata,  rafforzata dal legame di grande stima e venerazione nei confronti di alcuni leader – Sofri, Viale, Rostagno tra tutti.

La solidarietà interna e l’impegno per la causa si concretizzavano in una militanza quotidiana onnipervasiva, nelle continue collette e sottoscrizioni fino alle vendite dei propri beni per finanziare l’omonimo giornale quotidiano e le esigenze dell’organizzazione e dei militanti a tempo pieno. C’era allora vivo un legame di aiuto e solidarietà tra tutti i compagni, che negli anni di sviluppo maggiore del movimento arrivarono a diventare oltre diecimila. In quel movimento si partecipava intensamente a sogni e bisogni, confronti e conflitti, amori e lacerazioni. Si voleva risolutamente un mondo diverso e migliore. Mai come in quella stagione ho sperimentato tanto intensamente, in tutti gli aspetti positivi e anche in qualche complicazione, la connessione tra pubblico e privato, tra personale e politico, tra individuale e collettivo: senza però che le formule, i concetti, i simboli e i riti sopravanzassero o uccidessero l’umanità e la solidarietà agite nel nome degli ideali e dei valori condivisi, senza mai che la libera e viva azione si trasformasse in gabbia, prigione o chiesa.

Tutto questo, finché durò, ebbe nell’adesione individuale un valore così intenso, che al suo scioglimento non pochi -  i più fragili, i più generosi, quelli privi di strumenti e alternative - caddero nella consolazione illusoria della droga, o entrarono nel delirio eroico della lotta armata.

A questo ho pensato dopo la visione del molto interessante e bene realizzato L’onda, del regista tedesco Dennis Gansel, e cioè alle somiglianze e alle dissomiglianze tra gli aspetti di un impegno politico rivoluzionario storicamente connotato, da me direttamente vissuto, e i tratti e gli elementi di cui gli autori del film si servono per costruire e raccontare la loro storia. 

Il mettersi insieme, il fare gruppo, il darsi e assumere una identità materiale, simbolica e affettiva forte, l’agire d’intesa per uno scopo comune, danno sicuramente risposta a un bisogno naturale di senso e di appartenenza, e questo è molto bene spiegato nelle vicende raccontate nel film - così come d’altra parte anch’io ho sperimentato allora. Ma c’è qualche differenza fondamentale tra realtà e dimensioni poste a confronto, e mi provo a indicarle.   

Nel film è sicuramente bene rappresentato lo stato di sospensione, sradicamento, disorientamento abulico in cui versano i giovani oggi. A loro non conferisce sufficiente senso di appartenenza, valorizzazione e identificazione né la famiglia, né la scuola, né la politica nelle forme oggi dominanti. Ecco quindi le forme identitarie e surrogatorie minori, del tutto inadeguate e spurie: le bande e i gruppi a condotta anarcoide, i comportamenti di sfidante e sterile asocialità, i gesti di bullismo e teppismo (comici e agghiaccianti insieme quelli messi in scena nel film dal gruppo di dodici/tredicenni), la subcultura dello sballo autodistruttivo, la ricerca del piacere per il piacere. O, anche, ma del tutto velleitari e inadeguati, i tentativi di un fare più positivo nell’allestimento di una piéce teatrale, nella partecipazione alle sfide di una squadra di pallanuoto. Nel film si sente che il regista, e il prof suo alter ego, sono comunque totalmente dalla parte dei  giovani, li rappresentano non come in sé dannati e perduti, ma come frutto di una società smarrita, vittime non ancora arrese, ma anzi vitalmente, potenzialmente disponibili. Il film riecheggia al proposito altri precedenti di natura e valenza simile: da L’attimo fuggente al più recente La classe.  

Il tirante narrativo, il calco e il dispositivo di aggregazione identitaria inventato dalla trama e proposto dal professore alla sua classe durante la settimana di sperimentazione didattica sul tema dell’autocrazia, fa leva proprio su questo dolorante bisogno insoddisfatto, su questa sospensione frustrante e frustrata, su questa carenza, o assenza, di modelli di riferimento credibili, di terreni su cui applicare e sperimentare tante risorse ed energie a quell’età generose, altrimenti sprecate e offese. Gli elementi per far funzionare efficacemente il corso sperimentale sul tema dell’autocrazia, verificato nei comportamenti concreti e non semplicemente discusso sul piano concettuale, ci sono tutti, e quindi, dopo alcune perplessità e resistenze iniziali, l’esperimento prende corpo e si sviluppa con grande e fin esagerato successo. Il problema è che la miscela diventa esplosiva perché applicata in ambito separato e chiuso, e cioè dentro le aule della scuola. Lì dentro sostanzialmente si sviluppa, esplode e tragicamente implode, anche  perché il prof, per quanto determinato, intelligente e coraggioso, e quindi dai suoi ragazzi adorato, non solo manca di conoscenze e competenze per governare il presto incandescente percorso/processo, ma è pure lui agito da spirito di rivalsa per antiche frustrazioni ed emarginazioni subite.

I ragazzi apprezzano con sempre maggiore entusiasmo l’uscita da uno stato di anomia e la conquista di una identità purchessia, ma il loro ambito di esplorazione finché rimane interno e autoreferenziale funziona, crea complicazioni e fa esplodere reazioni non appena pretende di coinvolgere e investire la dimensione sociale esterna. Per loro l’esperienza è importante e seria, ma in realtà a prevalere via via è il versante allucinatorio mimetico, destinato a far avvitare e implodere il tutto. In assenza di un campo di azione e di una dimensione sociale completa, di un respiro a dimensione storica, è un po’ come pretendere che un dolce lieviti e cuocia a puntino in assenza delle condizioni necessarie. Lì non si vuole in realtà cambiare se stessi e con sé il mondo intero secondo una visione, una concezione, alcuni ideali e valori fondativi. Lì si vuole semplicemente e per le spicce uscire da uno stato di impoverimento desolante e desolato. Ai miei tempi di giovinotto rivoluzionario, Lotta Continua era espressione di una generazione che voleva cambiare il proprio destino e con esso il mondo perché ambedue ritenuti collegati, interdipendenti e insoddisfacenti. E che la rotta fosse quella giusta lo confermava la risposta positiva, l’adesione spontanea ed entusiasta, l’alleanza fruttuosa con altre parti e componenti sociali oppresse, sfruttate, espropriate e sofferenti. 

Nel film il prof è un insoddisfatto decisionista, ma anche un irresponsabile, perché presto travolto dalla scarsa consapevolezza delle sue pulsioni profonde e dalla complessità delle dinamiche e delle variabili messe in moto nei ragazzi dagli stimoli della sua sperimentazione. Una volta aperto il vaso di Pandora, egli si mostra impreparato, malgrado il disperato tentativo finale, a governare e contenere i demoni evocati. Ma l’interesse principale del film io credo stia nella capacità di mostrare come i giovani dei ricchi paesi occidentali, e dei loro più avanzati licei, siano oggi allo sbando perché privi di una speranza e di un progetto credibile di futuro, di un modello di società in cui vivere tutti meglio, in modo più solidale, coeso e sensato. Il regista ha buon gioco nel mostrare come essi siano pronti a farsi intruppare fideisticamente dal primo abile manipolatore che sappia far leva sulla loro condizione di miseria infelice. Già nella nostra storia, in epoche non così lontane, ciò si è catastroficamente verificato. Che qualcuno sia oggi tentato di riprovarci, con la ricetta della costruzione di una comunità autoreferenziale e chiusa, mobilitata a difesa degli interessi e della propria identità minacciata, sembra dai fatti in corso più che evidente. 

Breve parabola sulla genesi del totalitarismo – quantomeno dei suoi presupposti, dei meccanismi e dei necessari ingredienti psicologici individuali e di gruppo. Questa è il contenuto della lezione del film. Direi splendidamente  riuscita.

Gian Carlo Marchesini