Milk

Milk si avvale di una bella storia magnificamente sceneggiata. Milk è innanzitutto l’interpretazione di Sean Penn. Milk è frutto di una regia empatica e sapiente come quella di Gus Van Sant. Milk è un film che ci riguarda tutti.

La storia è quella della lenta, difficoltosa, graduale, drammatica ed entusiasmante emancipazione del movimento dei gay statunitensi, negli Anni Settanta, di quelli di San Francisco in particolare, di un suo quartiere specifico, Castro. E come tutte le storie di liberazione – dalla vergogna per il rifiuto e la condanna, dal pregiudizio, dall’oppressione, dall’ignoranza, dall’ipocrisia, dalla menzogna, dal sequestro coatto in carcere e in reparti psichiatrici, dalla violenza delle percosse che spesso portano alla morte – magistralmente interpretate e felicemente raccontate, essa induce nello spettatore una risposta immediata di empatia, un risultato – malgrado le diversità di orientamento e inclinazione dei protagonisti del film - di forte identificazione. L’umanità della comunità gay che via via si raccoglie e aggrega intorno ad Harvey Milk è così vividamente presentata nella sua condizione, nei suoi problemi e dilemmi, nel suo progressivo maturare e prendere coscienza dei suoi diritti, da assumere profilo e tratti di autorevolezza di un valore esemplare e universale. 

All’inizio del film i gay del quartiere sono una presenza numerosa ma informe e sparuta: sono lì unicamente perché cacciati dalle loro famiglie, dalle università e dal lavoro, sono lì perché orfani sperduti e corpi affamati di tenerezza costretti a incontri sessuali mercenari. L’immagine finale li vede sfilare piangenti e silenziosi in trentamila, torce e candele in mano, per onorare il loro leader ucciso da un avversario politico psicopatico. Dall’inizio del film alle immagini finali del corteo sono trascorse neanche due ore, ma esse hanno raccontato efficacemente i dieci anni di battaglie, lotte, sconfitte e vittorie di un movimento di liberazione tra i più forti e significativi, insieme a quello contro l’apartheid razziale, di questi nostri ultimi decenni. 

La forza di Milk sta sicuramente nell’esemplarietà dal valore universale della storia raccontata. Ma la forza del film viene anche dall’interpretazione che di Harvey Milk dà Sean Penn, al punto che al suo posto non si riesce a immaginare, per quanto bravo, un altro attore. Sean Penn, tra l’altro, è conosciuto per le sue parti di personaggio duro, malinconico e spietato, introverso e depresso. Qui è un omosessuale leader del movimento di liberazione dei gay di una verosimiglianza strepitosa, umanissimo e tenero, forte e deciso, fragile e carismatico. Quello che sbalordisce è la naturalezza e la precisione psicologica con cui incarna l’uomo al femminile, l’omosessuale orgoglioso e felice di esserlo, con i modi, i toni, i sorrisi, le sfumature espressive di cui i maschi – per l’assunzione di un ruolo virile troppo spesso monocorde e pietrificato - si sono scordati.  

E poi Milk è un film di Gus Van Sant, amorosa chioccia dell’intera messa in scena e dell’opera. In Milk sono confluiti tutti i ragazzi sparsi nei suoi film precedenti – Will Hunting, Scoprendo Forrester, Belli e dannati, Elephant, Last Days, Paranoid Park - orfani e soli, sbandati e tormentati, lupi solitari smarriti, finalmente diventati in Milk giovani adulti che si incontrano e riconoscono, alzano la testa e reagiscono, individuano il loro leader e lo seguono. E finalmente, faticosamente, restituiscono alla loro vita valore e senso, dignità, riconoscimento di cittadinanza piena, autostima. 

Insomma, Milk  è uno di quei film che ti ricordano, ce ne fosse bisogno, quanto il cinema può essere grande nel compiere la sua missione di riconciliazione riparatrice e liberatoria nel restituire dignità e luce agli angoli bui dell’umanità e della vita. Gay o non gay, per la sua sollecitazione forte alla conoscenza scevra di pregiudizi, all’accettazione delle diversità e al rispetto pieno dei diritti, Milk è un film che ci riguarda intimamente tutti.

Gian Carlo Marchesini