Creatività e (è) scrittura

Appunti per una riflessione


Uno scrittore che in una fase importante della mia vita – anni Sessanta e Settanta – ho molto amato,  Michel Tournier (Venerdì o i limbi del Pacifico, Le meteore, Il re degli ontani) si auto rappresentava così: io sono sostanzialmente un corpo con tre organi fondamentali: il cervello, le mani, il sesso. Il cervello e il sesso non occorre spiegare a che servono. Le mani sono ponte proficuo tra i due, e decisive per la scrittura.  

Una riflessione sul rapporto creatività-scrittura io la inizierei proprio così: la mente serve per individuare, distinguere, analizzare, elaborare; il sesso per esplorare e (molto piacevolmente) conoscere; le mani, aiutate da penna e computer, per mettere meglio a fuoco, trascrivere e definitivamente inscrivere. Insomma, l’operatore magistrale di cui stiamo parlando è una specie di scimmia sapiens ristretta a quelle tre funzioni fondamentali. 

La scrittura per me è come un forcipe che aiuta a cavare dai visceri quanto in un determinato periodo di interessante si è formato. Spesso, curiosamente ma non troppo, il tempo di formazione della “creatura” coincide, grosso modo, con la durata dei nove mesi.

Come sono tendenzialmente onnivoro nell’ingerire, così metabolizzo meglio se, grazie alla scrittura, dò nuova forma ai sapori, agli stimoli, alle emozioni. Io posso scrivere, e tendenzialmente scrivo –  iniziando col prendere annotazioni e appunti - su tutto. Diciamo che tra digestione/metabolizzazione di pezzi, parti e spunti della realtà, e la scrittura, per quanto mi riguarda c’è lo stesso rapporto esistente tra boccone ingoiato, la saliva e i succhi gastrici. Per trasformare in carne e sangue e rendere accettabile lo sproposito affascinante che è la vita, io ricorro sistematicamente a un formidabile enzima coadiuvante: la scrittura. Ma, per applicarmi con successo alla scrittura di un libro, stimoli ed emozioni devono essere particolarmente robusti. 

Ho iniziato a scrivere durante l’adolescenza un po’ su tutto: brevi poemi, articoli, mini saggi, alternando a idilli e accensioni erotiche temi e questioni di carattere sociale e politico - in parallelo, naturalmente, a una frequentazione piuttosto indaffarata tra mano e sesso. Scrivevo innanzitutto per me, per esercitarmi, sfidarmi, farmi compagnia. Poi facevo leggere a qualche amico: ma pur ricevendo elogi e apprezzamenti, non osavo affrontare il mare aperto.  

Qualcosa che poteva anche essere definito libro lo scrissi per la prima volta cercando di raccontare la mia esperienza universitaria alla Cattolica di Milano; scrissi un libro successivo in forma di diario sul servizio militare svolto per i primi cinque mesi in una Scuola militare a Maddaloni – chissà se esiste ancora! - e per il periodo successivo alla caserma della Divisione Corazzata Centauro di Civitavecchia. A spingermi al cimento fu sicuramente l’impatto con una per me atroce esperienza di non senso. Avevo immaginato l’Università come una sorta di scuola filosofica  peripatetica dell’antica Grecia: un piccolo gruppo di discenti intorno a un saggio ad ascoltare, interrogare, confutare: approdo e risarcimento rispetto agli anni in collegio di preti a biascicare preci, e aule in cui imparare a memoria testi come polli all’ingozzo nella stia. Eravamo nel mezzo degli anni Sessanta, constatai che l’Università tutto era fuorché un circolo per innamorati della sapienza. Dopo un anno, mi dissi che su quella strada non avrei proseguito, ma a quel punto era obbligo pagare il mio debito allo Stato. Il debito è consistito in quindici mesi di rinuncia alla vita presa in ostaggio da un Moloch. Credo di non avere mai sperimentato nulla di più assurdo e idiota della vita militare in caserma: dove si persegue sistematicamente l’annullamento della libertà, della volontà, dell’autonomia all’insegna di mimiche stralunate, frasi sciagurate e urla sadiche. Soltanto immergendomi nottetempo in ore e ore di scrittura, rinfrescandomi come tizzone adirato in gelide acque, sono riuscito a non impazzire, a non ribellarmi e fuggire. La scrittura, quindi, è anche arma di resistenza e rifugio per la sopravvivenza.

Il mio primo vero libro è maturato nella forma di racconto della mia esperienza di insegnamento, qualche anno dopo, in una scuola media all’interno di una casa di rieducazione di ragazzi socialmente e familiarmente disastrati gestita da Salesiani in quel di Arese. Il mio coinvolgimento fu così completo, l’immedesimazione con il mondo travagliato di quei ragazzi così piena, da sognare anche la notte quello che sperimentavo di giorno. L’impatto mise in moto la germinazione di un libro – così come incipit da allora sempre ho sperimentato. Quel libro capitò nella mani di un docente universitario che ancora non era entrato nelle Brigate Rosse, ma, ancora e semplicemente uno studioso delle carceri, aveva appena pubblicato un saggio sulle case di rieducazione in Italia. Lo apprezzò, lo propose a un editore per la pubblicazione. Poi il professore entrò nella sua sovversiva e cruenta clandestinità, e del libro non se ne fece più nulla.

La scrittura per me ha fin dall’inizio funzionato come modo necessario a farmi meglio interagire e convivere con un eccesso di stimoli, tensioni ed emozioni, trasferendo quell’eccesso su un altro piano e trasfigurandolo, grazie al linguaggio e alle potenzialità creative della sua tecnica, in una forma utile a far partecipi altri – almeno nelle mie attese e intenzioni – dell’esperienza vissuta. Ciò che di importante avevo incorporato, era necessario lo restituissi al mondo. Credo che là dentro ci siano meccanismo e logica del dono, bisogno di lasciare traccia e memoria di un percorso vissuto e ritenuto in qualche misura interessante, importante, degno. 

Tra i suoi tanti fini, la scrittura annovera quindi sicuramente anche quello della fuga da una altrimenti desolata solitudine.

Così da allora mi è successo per una sequenza di almeno una quindicina di volte: nel racconto delle vicende tormentate di una separazione coniugale, come nella raccolta antologica di una serie di saggi su temi attinenti la Questione Meridionale; in alcuni racconti lunghi aventi come terreno di applicazione  i bambini e le loro relazioni con gli adulti, e altri in cui invece i protagonisti diventavano adolescenti esistenzialmente traballanti e socialmente deviati; oppure una dichiarazione d’amore per un luogo eletto a rifugio dell’anima, e una rivisitazione vent’anni dopo dello stesso luogo in termini più maturi e toni più smagati e critici; dall’omaggio al grande statista meridionale, al racconto della vita e della tragica scomparsa del suo adorato nipote; dal saggio riflessivo sugli effetti del diffondersi dei processi comunemente e universalmente definiti “globalizzazione”, a uno dedicato invece allo stato non eccelso dell’etica e della responsabilità sociale di impresa – per finire con un salmo invettiva in trecento proposizioni sulla stato lacrimevole in cui versa la nostra pubblica scuola. Non è comprensibile che, a opportuno risarcimento, l’ultimo mio libro sia un racconto su un viaggio in Brasile e la scoperta della sua emozionante e sontuosa bellezza?

Come è facile ricavare, ho applicato più o meno felicemente le potenzialità della scrittura nella creazione di una galleria di figure tipiche e importanti nella vita di un individuo: dal tema dello sviluppo economico e sociale di una comunità all’esaltazione della bellezza di un luogo; dall’evento straordinario della nascita di un figlio al dramma di una separazione coniugale; dal gratificante lavoro pedagogico con i bambini a quello più complicato e perturbante con gli adolescenti difficili; dall’omaggio a una figura di statista eccelso anche per doti paterne al compianto per la morte prematura di un giovane così valoroso e affine da essere percepito come un fratello; dal tentativo di lettura e comprensione dei processi economici che stanno sconvolgendo il mondo a una radiografia severa dei mali che affliggono la nostra scuola; dall’esaltazione delle scoperte dovute a un bel viaggio alla denuncia/invettiva contro gli abusi edilizi che possono deturpare luoghi una volta bellissimi. 

La scrittura, come si può arguire anche da questo sintetico elenco – che ognuno può sviluppare a suo piacere e all’infinito – è quindi anche modo potente di rivisitare fatti, esperienze, eventi, per una loro migliore messa a fuoco conoscitiva, una loro più approfondita comprensione. Tanto che, a volte, mi viene da chiedermi se io non abbia realmente conosciuto e vissuto soltanto, o specialmente, le cose di cui sono tornato a nutrirmi attraverso il lavoro della scrittura. 

Scrivere, quindi, è vivere più volte, riproporre e dare forma (quasi) definitiva a ciò che altrimenti fugge e non ritorna, significa poter trasmettere e meglio comunicare con altri, aprire con loro un cospicuo  e prezioso canale di confronto, mettersi a confronto e in discussione. Una attività di scrittura tanto praticata da essere sufficientemente padroneggiata diventa come una seconda natura, esercizio di riflessione approfondita, una più affinata capacità di analisi e comprensione della natura dei fenomeni, dei fatti, delle persone. La scrittura richiede una familiarità con la parola nei suoi molteplici e sfaccettati significati, impadronirsene vuol dire lasciarsene ammaliare e impadronire:  sperimentando presto che, al fine di dare espressione efficace a un racconto, a un pensiero, quella parola in quel punto della frase è necessaria, e nessun’altra. 

La frequentazione del mondo delle parole, e una adeguata padronanza delle tecniche di rappresentazione della realtà attraverso il ricorso alla scrittura, entrano a un certo punto così in profondità che a me capita di sentire arrivare imperiosa la sua esigenza in modo quasi automatico. Io so e sento quando un concetto, una immagine, un racconto reclamano di prendere corpo e forma. Posso rinviare, ma io so che sono lì e premono tenaci per nascere. E’ necessario allora rendersi disponibili, accettare il ruolo di medium che docilmente esegue e trasforma in dettato il flusso. Terminata l’urgenza della piena, trascritta la sua anima nella precisione della forma, con calma, in una seconda e terza lettura, limando e asciugando, togliendo o innestando, il testo si avvia alla sua forma finale e definitiva. Le pagine che si sono susseguite sono ormai lì complete e profumate come forme di formaggio fresco adagiate in bella mostra sulle loro assi. Bisognerà aspettare ancora un po’ che perdano gonfiore e liquido ridondante, ma poi, completato il processo, chiunque le assaggi non potrà che apprezzarne bontà e qualità, sapore e consistenza.

Il testo ora vive una vita autonoma propria, può iniziare il suo libero viaggio nel mondo. E’ come una freccia scagliata nello spazio, un figlio che affronta vigoroso la vita. Lo si può seguire con trepidazione, non lo si può più controllare e riprendere. Ciò che era carne della tua carne, umori e passione, embrione di idea e anima, è diventato altro da te, sufficiente e autonoma pienezza in sé. Quando qualcuno nell’antichità ha detto: e lo spirito si fece carne, credo si riferisse sostanzialmente a questo.

La scrittura è tormento e passione, appaga ma tiene anche in uno stato di perenne tensione, consente di spingere il pensiero, la parola, l’intuito e l’immaginazione oltre limiti e confini altrimenti non superabili, su terreni altrimenti difficilmente esplorabili. La scrittura è come la piccozza e i chiodi per lo scalatore, indispensabili per arrampicarsi e salire, è un corpo a corpo con sé stessi, un goniometro che misura spazi, spigoli e superfici, un sonar che invia segnali nel profondo degli abissi e interpreta i messaggi che ne tornano per tradurli in dati, informazioni, immagini. 

Scrittura e lettura si tengono e potenziano a vicenda, insieme costituiscono un formidabile congegno interattivo di penetrazione e accoglienza, di recezione e misurazione. Portare la scrittura alla piena esplicitazione dei suoi poteri regala un piacere a volte così intenso da comprendere perché, come si citava all’inizio, Michel Tournier dichiari di ritenere indispensabili per lo scrittore fondamentalmente tre organi: il cervello, la mano, il sesso.  Le parti sono così compenetrate che a volte si possono anche alternare e sostituire: si può benissimo scrivere con il sesso, scopare con il cervello, tenere insieme la circolarità fluida ed esplosiva delle funzioni grazie alla presa svelta e decisa di una mano.

Credo che se qualcuno volesse oggi infliggermi un danno irrimediabile non avrebbe che da rinchiudermi in una stanza senza possibilità di scrittura. Ma anche così non posso dimenticare che De Sade, il divino marchese, rinchiuso in prigioni varie o nel manicomio di Charenton - per crimini che poi erano libertini più per libertà di pensiero e scrittura che concretamente perpetrati, ed è per questo che quel genio spaventava - utilizzava la carta che gli veniva fornita a fini igienici per miniaturizzarla di caratteri fittissimi e minuti, riuscendo così a rappresentare e trasmettere il suo pensiero libero e formidabile; o, se volete, inquietante e discutibile. Ed è anche da qui che viene da dedurre che la scrittura sia così genialmente anarchica e onnivora da nutrirsi anche della follia e della merda.

Il mestiere di scrittore assomiglia a quello di chi si sforza di tenere accesa nella universale caligine scura una precaria fiammella. Io a volte mi vivo come chi sta immerso nel buio in trincea. E non ha altro modo di segnalare la sua presenza, e tentare di illuminare malamente il cammino, se non lanciando cocciutamente verso il cielo rudimentali razzi. Dopo il lampo il buio torna a incombere orrendo: ma basta quel lungo minuto di scia luminosa per averne rischiarati l’anima e il cuore.

Gian Carlo Marchesini