David Grossman & Co.

David Grossman sviscera, analizza e restituisce ai nostri occhi con una capacità di scrittura prodigiosa tutte le dinamiche e le sfumature della vita di un individuo, una coppia o un gruppo famigliare. Amicizia e inimicizia, amore e odio, malintesi e complicazioni, entusiasmi esplosivi e raffreddamenti improvvisi, nulla viene trascurato, nulla ci viene risparmiato. E noi ci facciamo felicemente coinvolgere, ci immedesimiamo con partecipazione e trepidazione, seguiamo riga dopo riga, pagina dopo pagina delle oltre settecento che compongono A un cerbiatto somiglia il mio amore. E apprendiamo tutto dei modi, dei riti, dei linguaggio in cui si svolge la vita e trascorre la storia di un rapporto di coppia in quella specifica famiglia, tra quel ragazzo e quella ragazza, tra quegli amici inseparabili e totalmente presi, che poi diventano amanti e sposi, genitori con uno o più figli: e poi si separano, allontanano, si cercano ancora e si riprendono in un vortice incessante e apparentemente infinito: in quella stanza nella quotidianità così intensamente vissuta, in quella casa, in quella comunità, in quelle strade di quel quartiere – e ufficio, e ospedale, e scuola e università, di quella città e di quel paese, di quell’eterno popolo tormentato e travagliato che è Israele. 

David Grossman ci prende per mano e ci tira dentro la sua caverna buia, ci fa sedere comodi e poi sullo schermo sciorina le infinite e affascinanti immagini della sua lanterna magica. Come non possiamo non innamorarci di quelle figure, di quei palpiti e spasimi, di quegli amori così veri, eterni e rapinosi, così travolgenti e spesso rovinosi? E quanta sapienza e competenza mostra nel descrivere e rappresentare ciò che li rende felici o infelici, le mille sfaccettature delle passioni, le infinite forme del dolore e della malattia, della decadenza, della sofferenza, dei penosi limiti e delle inaspettate resurrezioni, fino all’ inevitabile e definitivo congedo. 

David Grossman è un filosofo, uno psicologo, un maestro e un mago. La sua predilezione per le forme di vita bambina e adolescente lo spinge a mettere in scena personaggi di quell’età: e li rappresenta, così come accade nella realtà, al centro delle tempeste magmatiche, del flusso entusiasmante di innamoramenti e scoperte, del meglio e del peggio che la vita sa proporre e offrire. Nelle prime cento pagine del libro, i due sedicenni Orah e Evrem - più Ilan, il terzo fintamente dormiente/assente - in isolamento dentro l’ospedale perché contagiosi, di notte e al buio perché fuori c’è la guerra che imperversa, in preda a incubi e febbri, sudori e fetori, malgrado tanto squallido disastro così magnificamente accesi e appassionati, innamorati di sé, tra di loro e della vita, sono tra le metafore più belle e folgoranti della condizione umana. 

Nell’allestire i suoi laboratori operosi, i suoi cantieri aperti a quello che di meglio e di peggio la vita sa produrre, Grossman è uno scienziato nella narrazione delle gesta del suo principale protagonista: l’essere umano. 

Solo che…  solo che il tutto viene rigorosamente girato in versione ebraico-israeliana, e anche l’eterno conflitto e la guerra in atto con il popolo palestinese sono interpretati e visti da dentro il cuore, la testa e i visceri del popolo israeliano. Come se il mondo e la storia dell’umanità avessero inizio e fine lì, tutto fosse riconducibile all’esperienza che una parte, una componente fa del mondo e della storia, e gli altri, i vicini, gli avversari e nemici fossero ingredienti funzionali a dare significato e valore alla propria. Insomma, come se fossero sì ammessi deutero agonisti teatralmente funzionali e subalterni, ma mai a loro volta pienamente, autonomamente degni e significativi. Il popolo protagonista, nel bene e nel male, è sempre il loro, l’unico di spessore e rappresentatività universali: gli altri vivono di riflesso nel confronto e contrasto. La vera sede legittima, quella capace di sviluppare al massimo e al meglio la cultura, la dignità e la verità, è la propria. Al più, i palestinesi, o gli egiziani, o gli arabi, hanno senso perché mandati da Dio a mettere il popolo eletto, per l’ennesima volta, alla prova. Quelle sono a mala pena le ombre ostili, i fantasmi persecutori, gli eterni nemici là fuori – o, al meglio, sono i domestici silenziosamente indaffarati e fedeli: ma che non pretendano, e chiunque altro con loro, di assurgere a dignità e ruolo di protagonisti di pari compiutezza ed eccellenza.

La vera vita, la vera morte, la vera esistenza, la vera gioia e la vera sofferenza, quelle con imprimatur di esclusività ed eccellenza, sono di competenza loro, degli ebreo-israeliani. Il vero dialogo, l’eterno confronto, è quello che passa tra loro e Dio. Il resto dell’umanità si direbbe avere senso in quanto contrastante antagonista, o, al massimo, coadiuvante e necessario comprimario. 

Ma perché un bambino e una bambina, un ragazzo e una ragazza, un uomo e una donna, una famiglia palestinese o araba non hanno la stessa ricchezza e miseria, la stessa grazia e ferocia, la stessa vitale mortalità? Non sono declinazione apparentemente diversa della stessa sostanzialità? Perché gli uni vengono rappresentati come modello universale e protagonisti unici, gli altri pressappoco, quasi, molto meno e per nulla?

Ma gli ebreo-israeliani non hanno un poco a noia loro per primi tutta questa storica ed eccezionale e straordinaria centralità? Non ha attirato loro abbastanza disgrazie e iatture, non hanno l’impressione e il sospetto che forse è il caso, per il loro bene, di prendersi un po’ di anonima vacanza, di spensierato – un po’ meno divino e un po’ più umano –relax?

Naturalmente, David Grossman è un grande. Mi sono permesso di segnalare una riserva che non riguarda l’arte della sua scrittura, ma avanza qualche riserva sulla sua postazione, posizione e angolazione. Ho pensato ne valesse la pena.

Gian Carlo Marchesini


P.S.: Considerazione analoga riguarda anche Abraham Yehoshua. Nell’ultimo bellissimo libro suo che ho letto, Viaggio alla fine del Millennio, parte cospicua dello splendido arazzo narrativo è occupata dalla descrizione pignola, dall’elencazione minuziosa di riti, pratiche, formule, citazioni di proverbi e versetti interni alla storia, alla cultura, alla religione ebraica. Non c’è anche lì una preoccupazione di autoreferenzialità un po’ ossessiva, una presunzione di centralità un po’ esagerata? Se ne ricava l’impressione che i grandi scrittori israeliani sentano l’obbligo morale di pagare pegno e tributo al loro Paese, alla storia e all’identità della loro Nazione, ai gerghi, ai riti e ai miti inventati in suo onore e difesa. E questo forse non aiuta a far camminare con passo del tutto spedito e leggero la loro indiscutibile arte, il loro straordinario talento. E ad avvicinare pienamente tra loro, come sicuramente nelle loro intenzioni, tutti i popoli.