Tutta la vita davanti.              

Questo film di Paolo Virzì è insieme gradevolmente bislacco e sgradevolmente osceno. Il regista deve essersi riunito con i suoi collaboratori attorno a un tavolo per individuare e mettere in fila tutti gli elementi che compongono la follia che è oggi il mondo del lavoro dei trentenni precari, l’avvilimento e l’abbrutimento di un call center dove un centinaio di ragazze devono concordare duemila appuntamenti al mese per consentire ad altrettanti colleghi maschi di vendere a domicilio un depuratore d’acqua potabile fasullo. Compiuta la ricognizione, il film  mette in scena tutti gli elementi individuati (linguaggi, tecniche, atmosfere, personaggi di un call center, parti biecamente padronali e patetici ruoli sindacali) per cavarne tutto il marcio che c’è dentro, lo sfavillio e l’euforia artificiosa dei sorrisi e delle motivazioni alla vendita inculcate con il ricorso alle tecniche di una manipolazione coercitiva spietata.  

Tutta la vita davanti è quella derisa e irrisoria di centinaia di ragazze e ragazzi che raccontano frottole seduttive al telefono e negli incontri a domicilio con casalinghe rintronate, otto ossessive e compulsive ore al giorno in grintosa erezione mentale e fisica per rifilare a qualche malcapitato un elettrodomestico inutile. E chi sgarra alle regole, o non raggiunge l’obiettivo prefissato, viene brutalmente licenziato. Nessuna tutela, nessuna garanzia, massima precarietà e insicurezza. E’ questo il dato rappresentativo della realtà lavorativa diffusa dei trentenni oggi? Lo è. C’è di che vergognarsi, incazzarsi, farne una denuncia forte, drammatica, dura? Sicuramente sì. Virzì parte e si avvia pimpante per poi rallentare, pasticciare, fermarsi a metà, riprendere ad andare in troppe direzioni e da nessuna parte. Vuole denunciare e smascherare? Forse. Si propone di coinvolgere e far immedesimare? Anche. Ma ciò che sicuramente, fortissimamente vuole è intrattenere, ammiccare, far divertire, buttarla in battuta e risata, non far troppo preoccupare e impensierire. Il film è insieme pochade onirica, barzelletta atroce, pastiche irrisolto di mille approcci, stili, tentazioni e tentativi. 

Quella che potrebbe essere magnificamente trasposta sullo schermo come tragedia dei nostri tempi - lo scialo e sciupio delle vite della generazione più bella e potenzialmente creativa - viene trasformata in cascatella rutilante di panna montata acida, in verve godereccia distribuita tra lacrime, battutacce e gags. Mentre mostra quanto dovrebbe far piangere e riflettere, Virzì butta tutto in ridere. E’ un po’ come sottolineare il ritmo di una trascinante tarantella con il rumore secco delle mandibole di un teschio, delle tibie e rotule di uno scheletro. Il mondo rappresentato è un delirio frenetico e dissociato di volgarità, brutalità e sfruttamento, ma linguaggio e stile del film sono divergenti, adatti a rappresentare tutt’altro. E la cattiva coscienza del regista è dimostrata anche dal ricorso alla voce narrante petulantemente didascalica di Laura Morante. Cosa ricavare da una tanto scintillante desolazione? Che viviamo tempi di incongruenza e dissipazione sia sul piano della realtà rappresentata, che del film che si è provato a  rappresentarla. Il che, come livello di confusione, francamente è troppo. 

Gian Carlo Marchesini