Raccontare la condizione dei bambini oggi

L’estate scorsa, sotto il pergolato del giardino della nostra casa di vacanze al mare (cielo stellato, aria dolce di un tepore profumato), una sera a fine cena è arrivato l’amico Pompeo a segnalarci un intervento del politologo Giovanni Sartori uscito quel giorno su Il Corriere della Sera che argomentava una tesi così riassumibile: la piaga della fame del mondo poteva essere combattuta e debellata operando, in alcune aree del pianeta in particolare, con il ricorso a tutti i metodi contraccettivi utili: dalla diffusione massiccia del preservativo, alla pillola, alla promozione incentivata della sterilizzazione di massa. Discussione immediata tra i presenti, con molti schierati contro quello che veniva giudicato egoismo cinico: le risorse necessarie a debellare la piaga della fame nel pianeta c’erano, bastava distribuirle meglio combattendo, riducendo, eliminando diseguaglianze e ingiustizie. Qualcuno dei presenti segnalò pure il fatto che la ricetta non a caso veniva da un vecchio occidentale ricco: in emblematica sintonia con il fatto che autore responsabile e beneficiario primo di disuguaglianze e ingiustizie del pianeta fosse proprio il bianco e ricco mondo occidentale. Insomma, la sola ricchezza dei poveri sono i figli, ma presentando tale dato qualche inconveniente, ed essendo troppo lungo e problematico il cammino per la soluzione dei loro problemi economici, si cominci almeno con il fargliene fare meno.

A quel punto mi ricordai come, a metà degli anni Sessanta, in quel di Milano, mi ritrovai una sera a dibattere appassionatamente in una conferenza sullo stesso tema, e a dover oggettivamente condividere il punto di vista di un prete presente, ovviamente a favore di una libera natalità a prescindere dalle condizioni sociali ed economiche dei soggetti, ma non perché condividevo il principio vaticano della sacralità della vita a prescindere e a ogni costo, ma perché qualche giorno prima avevo letto le posizioni assunte al proposito da Fidel Castro a Cuba: i popoli del Terzo e Quarto mondo che lottano per la loro emancipazione non possono accettare il punto di vista dei popoli ricchi che pretenderebbero attenuare tensioni e conflitti sul piano internazionale non rinunciando ai propri privilegi, bensì costringendo i popoli poveri e oppressi a rinunciare a tutto, anche alla loro vitalità demografica. 

Venendo ai nostri giorni, l’altro giorno ho partecipato al dibattito per la presentazione del libro di un altro autore anagraficamente anziano, coetaneo di Giovanni Sartori, che di quest’ultimo, su natalità e demografia propugna tesi simili se non ancora più estreme e radicali. Il libro si intitola (da un verso di Eliot):  Si spegne. Signori si chiude. L’autore è Giuliano Cannata, ingegnere esperto di acqua, antropologo tra i fondatori di Legambiente. La tesi argomentata in quasi 300 pagine del libro può essere riassunta così:  finora la nascita degli umani e l’evoluzione della specie sono state determinate da una biologica casualità cieca. Oggi la specie umana sta prendendo nelle sue mani il controllo del suo destino, il che si traduce in una crescente riluttanza a procreare. Nelle ragioni di questa diminuzione/rinvio, oltre alle difficoltà economiche e alla carenza di servizi sociali, e all’esigenza per le donne di affermazione sociale, politica e professionale, ecco affiorare – sostiene Giuliano Cannata – anche una componente antropologica, culturale e psicologica: una volontà più o meno consapevole di sottrarsi al richiamo della procreazione, alla vita trasmessa. Insomma, la specie umana avrebbe deciso di non crescere, siamo alla “fine di un futuro in sé, fine della storia anche, perché la giostra questa volta non si limiterà a farci discendere e salire, noi e i nuovi passeggeri, ma si svuoterà e, alla fine, inesorabilmente si fermerà e non salirà più nessuno (si spegne, signori, si chiude).”

Dopo avere preso conoscenza, dalla presentazione del libro e dal successivo dibattito, di questi nuovi orientamenti della specie umana, piuttosto choccato sono andato a guardarmi su internet le tabelle delle attuali tendenze demografiche a livello mondiale. E’ vero che in Europa le cose vanno come Cannata sostiene (da un -0,5 negli ultimi anni in Spagna e in Italia, a un + 0,5 in Francia e Germania). Ma negli altri continenti (Medio ed Estremo oriente, America Latina), l’indice di crescita è ancora posizionato tra il +2,5 e il +5%: quindi le tendenze demografiche in atto non sono universalmente così negative. E’ vero però che se noi ricchi  bianchi occidentali esprimiamo una tendenza anticipatrice, ragionamenti e argomentazioni di Giuliano Cannata non sono così peregrini. Ciò non toglie che la sensazione molesta che mi è rimasta ha a che fare con una domanda:  ma quanto la tesi sostenuta ha (anche) a che fare con l’avanzata età di chi la formula e sostiene? Dire che le donne hanno deciso di fare meno figli (oggi in Italia in media 1,3 a testa), di farne sempre meno se non praticamente più, è la stessa cosa se è argomentato e sostenuto da una donna, piuttosto che da un maschio ultrasettantenne? Il dato non sarà così decisivo, ma è del tutto indifferente? Anche la scelta del titolo di un libro non è indifferente. Si tratterà pure di un verso di Eliot (anche quello scritto a età così avanzata?), ma affrontare il tema di un reale rallentamento demografico sparando in copertina Signori si chiude, non mi sembra così privo di significato.

Nei giorni scorsi mi è capitato di leggere altri due libri. Il primo, Il lunedì arriva sempre di domenica pomeriggio, di Massimo Lolli, che riprende il caso del manager licenziato in tronco che neppure ha il coraggio di annunciarlo in famiglia, quindi continua a fingere di lavorare per non perdere socialmente la faccia (già raccontato in un film di Laurent Cantet di qualche anno fa), e oltre a divagare sulle abitudini e sul comportamento sessuale del 55enne protagonista a caccia di donne sole nelle balere del godereccio e squallido hinterland veneto, fa una radiografia acuta e perspicace di alcuni comportamenti in auge nei top management aziendali in questi tempi di crisi. Ma secondo me il vero punto di forza del libro è il tema della paternità come disamoramento e rifiuto. Così infatti il protagonista osserva a pagina 98:  “Ciò che mi atterriva maggiormente erano le coppie giovani. Ogni volta che questa scena mi si presentava agli occhi, pensavo allo scampato pericolo del matrimonio. Io non volevo spingere una carrozzella in calzoni corti e sandali infradito. Io non volevo cambiare i pannolini. Io non volevo lavare i piatti. Io non volevo tenere i bambini. Io non volevo finire in un mini appartamento.“ Ecc. ecc.

Il secondo libro è Il bambino che temeva la fine del mondo di Antonio Scurati, magnificamente scritto, che affronta il tema scabroso della pedofilia ma in realtà è un libro sulla odierna dilagante pedofobia. Le vicende raccontate sono una rappresentazione appena mimetica e traslata delle orrende cronache dei (presunti) abusi sui bambini da parte di alcune maestre dell’asilo di Rignano, e delle accuse di pederastia mosse a don Gelmini da alcuni dei suoi assistiti. Ma il vero “basso continuo”, la potente risonanza del libro è fornita dai capitoletti in corsivo nei quali Scurati racconta la propria infanzia in balia di incubi e sonnambulismo originati dalla sotterranea percezione di un originario rifiuto materno. “Quando rimasi incinta di te ero molto infelice. Non lo volevo un secondo figlio. Non avevo mai voluto nemmeno il primo. Per tutta la vita mi sono chiesta se fosse mai possibile che tu avessi sentito che ti volevo abortire.” (pag. 266). E in un analogo rifiuto inorridito che il protagonista del libro, alter ego dell’autore, manifesta nei confronti della compagna nel sapere che era incinta di lui. Al punto che, in tanto rifiuto della nuova vita, e nell’orrore nei fantasmi di abusi sessuali perpetrati dagli adulti sui bambini (e nella rappresentazione della condizione tragica dell’università italiana oggi, e dell’intreccio di relazioni miserabili e opportunistiche tra docenti e discenti, tali da fare scappare a gambe levate da quel mondo chiunque), il finale del ritorno del protagonista alla compagna, e il loro ascoltare intenerito il tum tum del cuore del figlioletto dentro il pancione, suona lieto fine ipocrita,  tradimento dell’impianto e dello spirito del libro.  

Il libro di Scurati fornisce una rappresentazione atroce e feroce della misoginia e della pedofilia/pedofobia oggi imperversanti con un linguaggio che oscilla tra apocalisse e scherno. “Otto milioni. A tanto ammontavano i clienti delle prostitute in Italia. Una rilevante fetta della popolazione maschile fissata a uno stadio di sottosviluppo della propria sessualità, a quello stadio in cui l’atto sessuale si colora di una sinistra sfumatura sadica, diventa un esercizio predatorio di possesso e  disprezzo, una richiesta di sottomissione strumentale, una dichiarazione di resa alla frustrazione erotico-sentimentale”. E ancora “A parte me, non c’era un solo maschio in età da lavoro, in età di riprodursi, all’orizzonte dei giardini. Non uno. Non al fianco dei vecchi, non dei cani, né dei bambini. Il sole tramontava sul parco giochi di un popolo che aveva dimenticato le cose prime, le cose ultime. Le aveva rinchiuse in uno squarcio di verde strappato al ventre cementizio della città. E non aveva più lingua per dirle. Passato e futuro ci avevano dimenticati. La vita aveva mancato il suo scopo.”  E ancora. “ Vorrei un Paese – mi sorpresi a pensare – in cui i vecchi non debbano trascorrere gli ultimi giorni in compagnia di donne premurose ma dalla vita straniera, in cui ai bambini non si riservi lo stesso spazio dato ai cani, in cui ai morti non si menta con l’alibi della pietà consolatrice ricordandoli tutti uguali, un Paese in cui vecchi, morti, cani e bambini non siano confinati in un lembo di terra talmente piccolo che perfino le mappe lo ignorano.” (pagg. 288-289).

Insomma, non si fosse capito, questi per i bambini e i vecchi, le donne, la nuova vita e l’assunzione di paternità sono tempi duri. Tutti vogliono godersi tutto subito, e del farsi carico di una rincorsa dal profondo passato per traghettare al meglio e perpetuare la vita al futuro, sembra proprio non fregare più a nessuno. I vecchi perché tanto vedono già spalancarsi ai loro piedi la fossa; le donne perché finalmente alle prese con la conquista di una spazio professionale e sociale pubblico; i maschi perché in crisi di ruolo, senso e identità. Siamo passati, in fatto di riproduzione della vita, dalla visone che ne aveva Schopenhauer, per il quale a menare le danze di un innamoramento fittizio e strumentale era, in cabina di regia, il bambino che doveva nascere, e che aveva determinato l’unione di quei due proprio perché in grado di migliorare con la sua nascita la specie, alla visione attuale che propongono, ahimé con ottime argomentazioni, Cannata e Scurati, per i quali il bambino sarebbe meglio non fosse mai nato, prigioniero come si ritrova di madri che non lo desiderano, padri che lo rifiutano, maestre e preti che, almeno nelle fantasie collettive, ne usano e abusano per i propri piaceri. Un incubo. Cannata arriva a dire che, decidendo di non fare più figli, l’uomo ha trovato finalmente il modo di rivalersi su una sua propria venuta al mondo non desiderata né richiesta. Una sorta di strage degli innocenti compiuta da Erode ex post, per vendicare tutti i-malgrado-loro-nati; ed ex ante: alla radice, per sempre, una volta per tutte. 

A questo punto è la notte. Cosa paradossalmente aspettarsi, se non l’alba di un radioso nuovo giorno?

Gian Carlo Marchesini







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