Yes we camp!

Il percorso in auto verso L’Aquila evoca l’immagine di una cerimonia di stampo militare: la parata delle forze armate in bella mostra. A distanza ravvicinata, lungo tutto il tratto autostradale tra Roma e il capoluogo dell’Abruzzo, mai visto tanti mezzi di carabinieri, finanza e polizia schierati in bella evidenza a ogni ingresso e uscita e cavalcavia, oppure sfreccianti a luci e sirene attive. “Noi siamo qui, siamo forti, abbiamo il controllo assoluto della situazione!” è l’evidente messaggio. Dove poi sia tutta questa minaccia da fronteggiare non si capisce: a meno che non si voglia distogliere l’attenzione da dove essa effettivamente risiede. 

A L’Aquila sono accolto dall’ennesimo temporale che contribuisce a rendere la vita di chi vi sta sotto una tenda ancora più inospitale e misera. Alla tenda che copre l’area del campo di pallacanestro del Parco Unicef ti accoglie gigantesca una scritta genialmente ironica: Yes We Camp – e le tende predisposte lungo il campo per la notte sono lì ad attestarlo. La notte precedente c’è stata la fiaccolata, da mezzanotte alle 3,32 a ricordo di quei minuti infernali, alla quale hanno partecipato in tremila a sfilare intorno e dentro il centro storico fin davanti a ciò che resta della Casa dello studente. Lì genitori e famigliari dei ragazzi morti sotto un edificio che non sarebbe dovuto crollare hanno sostato piangendo e gridando uno per uno i nomi dei loro cari scomparsi. Sono gli stessi che hanno rifiutato l’ipocrisia del conferimento della laurea post mortem, e che invece chiedono con forza che i responsabili paghino.

Sotto il tendone del Parco Unicef si alternano durante il giorno ad ascoltare e a intervenire diverse centinaia di persone. C’è una bella atmosfera, malgrado i temi trattati non siano allegri, ci sono i giornalisti con i loro strumenti, giovani e anziani, donne e uomini ad ascoltare, commentare e applaudire gli esponenti del presidio di Chiaiano e del No Dal Molin, dell’Abruzzo Social Forum e dei comitati irpini. Tra i tanti, intervengono Pierluigi Sullo di Carta e Gabriele Polo de Il manifesto, Gianni Rinaldini  segretario generale Fiom CGIL e padre Alex Zanotelli con la sua voce soave e le parole sferzanti. Abbiamo ascoltato il sociologo argentino che ha raccontato di come, dopo la rovinosa crisi economica del 2001, ben 200 siano state in Argentina le fabbriche che hanno ripreso a produrre gestite dagli stessi lavoratori associati in cooperativa, e l’economista del gruppo A Sud che ha fornito chiave di lettura di come le lotte degli indios del Chapas e quelle dei comitati di Chiaiano e di Vicenza, come dell’Aquila, siano unite dal rifiuto dell’espropriazione e dello sfruttamento delle risorse del loro territorio da parte di forze esterne nemiche. 

Tra le parole più ripetute e con forza affermate: democrazia dal basso, controllo e partecipazione, etica della terra, giustizia e rispetto dell’ambiente, solidarietà e condivisione. All’improvviso, dal nulla, è spuntato un esponente dei comitati aquilani organizzatori del convegno che reggendo in equilibrio un enorme vassoio ha offerto bicchierini colmi di frutta di bosco ai partecipanti. Gratuito, sorridente, silenzioso e lieve: e poi così come è venuto è scomparso. A L’Aquila la sera si organizzano spettacoli teatrali di riflessione sui temi legati al terremoto e alla ricostruzione accompagnati da canti, chitarre e rulli di tamburi, si partecipa del cibo sostanzioso e saporito in tende mensa auto organizzate, si ha cura di non disturbare o sporcare, di lasciare tutto in ordine e pulito. E ognuno contribuisce con quello che ha e può. Ci sono gli studenti di architettura che si applicano finalmente a imparare il senso e le funzioni e la forma di un modello di città effettivamente risposta ai bisogni e alle attese della gente che vi abita e che la vuole ricostruita a misura. Ci sono cooperatori, sindacalisti, sociologi, psicologi  e politici che hanno modo di riflettere sul campo su come riorganizzare e rimettere concretamente con i piedi per terra le loro funzioni, professionalità e competenze. L’emergenza e la sofferenza e le necessità impellenti del dopo terremoto cavano fuori la sostanza di ognuno, dei gruppi e delle associazioni, delle comunità e dell’intera collettività. Intorno alla violenza terrificante dei crolli e delle macerie si aggregano le energie migliori, il soccorso, la solidarietà e la voglia di riscoprire il senso della propria vita, di portare un qualche aiuto a chi se l’è vista minacciata e ferita.

Vengono in mente situazioni analoghe vissute in altre emergenze di altri terremoti, nel 1968 nella Valle del Belice e nel 1980 in Basilicata e Irpinia. Anche là le parole d’ordine non erano diverse: Danilo Dolci e Lorenzo Barbera lottavano con i loro comitati di base contro speculazione e burocrazia, contro una visione del potere politico calato dall’alto (I ministri dal cielo, era il titolo del libro di Lorenzo Barbera pubblicato a consuntivo).  Così come i comitati di lavoro politico democratico e dal basso attivi in Irpinia volevano impedire speculazioni e truffe, espropriazioni ed espulsioni. Nella sciagura collettiva di un territorio distrutto e da ricostruire si aggiravano lupi spietati e soccorrevoli cani san bernardo, iene voraci e tenaci muli da soma. La crisi economica come la ricostruzione post terremoto possono essere occasione di arricchimento speculativo per pochi come scoperta che un modo diverso di lavorare e vivere insieme è possibile. E si apprendono più cose sulla natura umana, i suoi istinti e bisogni, sui fenomeni sociali e i processi economici in situazioni di emergenza e crisi, di quanto non avvenga leggendo tanti enciclopedici libri. Perché è lì che si apre lo spazio e l’opportunità per allestire laboratori sociali di ripartenza e organizzazione più giusta della vita di quanto sia possibile trovare nelle situazioni normali. Lì c’è la scuola e l’università della vita, è continuamente e radicalmente in gioco tutto. Ecco forse il perché di quell’esibizione di forza militarizzata, inutile ed esibita contro una immaginaria minaccia: che così è vissuta la speranza e la voglia di chi vuole tentare un modo diverso e alternativo di abitare, lavorare e vivere.

Una piccola ma non inutile riflessione finale è stata offerta da Sergio Ciancaglini, il sociologo argentino, che ha osservato: avete presente l’immagine del pensatore scolpito da Rodin? E’ la statua di un uomo nudo, vecchio, la mano conficcata sotto il mento, l’espressione cupa, la postura del corpo contratta e sofferta. L’arte del pensare viene lì rappresentata come arte essenzialmente razionale e di testa, individuale e solitaria, sostanzialmente infelice. Perché invece non reinventarla e proporla come dinamismo slanciato e gioioso del corpo intero, nessuna delle sue parti e funzioni esclusa, che si apre nel confronto con la comunità? Ecco, è a quel punto che è apparso silenzioso e sorridente il donatore di frutti di bosco. Ci sarà stata tra le quinte una regia accorta?

Gian Carlo Marchesini