I grumi ossessivi di Steven Spielberg

Approfittando della vacanza, ho rivisto tre degli ultimi film di Steven Spielberg:   A.I. – Intelligenza Artificiale (2001), Minority Report (2002) e La guerra dei mondi (2005). Spielberg è un grande, grandissimo regista, i suoi film sono favole poetico-filosofiche profonde e cinematograficamente splendide. Ma vi è in essi anche una venatura paranoica, un grumo di ossessioni, un filo conduttore comune e basilare che  in questa rivisitazione a me sono risultati particolarmente evidenti. 

Prendiamo A.I. – Intelligenza Artificiale: sì, è vero, dentro c’è un punto di vista interessante e un bel dibattito scientifico-filosofico sul fin dove è opportuno e giusto che ci spingiamo nella realizzazione di robot e macchine intelligenti sempre più sofisticate ed efficienti. E’ come dicesse:  cosa vogliamo, in realtà: costruire macchine servizievoli e coadiuvanti perché incorporano alcune delle nostre capacità e abilità, o creare e perfezionare individui sempre più uguali a noi, capaci di memoria, emozioni e sentimenti – l’amore e l’odio, la paura, il sonno e i sogni ?  Insomma, i figli naturalmente generati e partoriti  vanno benissimo: ma se riuscissimo a fare anche noi quello che un dio ha fatto inventandoci a sua immagine e somiglianza,  creando esseri simili a noi  non per un dispositivo  incorporato nella nostra natura di umani, ma in qualità di generatori tecnicamente capaci e autonomi? 

Nel film, oltre a una esplorazione/raffigurazione del desiderio di onnipotenza divina,  che di per sé potrebbe bastare e avanzare, c’è, ad agitarsi costante, la domanda cruciale sulla nostra origine, la nostra natura, il senso e lo scopo della nostra vita. Ma ancora più  centrale nel film sembra essere  la domanda sulla sostanza e la natura dei legami affettivi primari, quelli tra genitori e figli, tra figlio e madre in particolare, sulla straziante fragilità, precarietà, vulnerabilità e finitezza di quei legami.  “Mamma” – pone insistente la sua domanda il bambino che nasce come mecca-nico ma diventa sempre più umano e orga-nico – “ma chi sono io veramente per te? Mi ami veramente, mi accogli e accetti definitivamente, oppure mi respingi e rifiuti, mi abbandoni al mio destino di paura e solitudine?”   Il senso della storia, la sua ricerca di  senso, il filo conduttore del film, sono proprio quelli del bambino che ambisce alla pienezza della condizione umana, è terrorizzato dal non averla riconosciuta, e cerca disperatamente la Fata Turchina per ottenerne il dono e la grazia. E l’approdo beato della sua ricerca, dopo mille avventure e peripezie, sta tutto nella felicità di essere amato per almeno un giorno dalla propria mamma – magari anche duemila anni dopo che ci si è lasciati -; e poi addormentarsi con lei finalmente ricongiunti  e felicemente abbandonati a un sonno eterno che è sì la morte, ma insieme la beatitudine del paradiso. 

Ma non sarà appunto questa l’ossessione personale del grande Spielberg? Che un bambino voglia sostituire il padre nel dividere il letto con la madre, aveva già detto la sua Sigmund Freud. Che in questo consista la felicità massima possibile, bé, c’è  tutto il percorso della storia e della civiltà a smentirlo.  Se Caino e Abele fossero tutt’e due finiti felicemente a letto con Eva, probabilmente la storia dell’umanità si sarebbe conclusa lì. C’è voluto che Caino, per invidia e gelosia,  uccidesse Abele perché i sensi di colpa e la persecuzione e la necessità dell’espiazione mettessero in movimento baracca e burattini dell’umano progresso. (A proposito: ma non è che i tabù, necessari a farci uscire dalla tana in una fase in cui chiudersi nella tana costituiva pericolo di estinzione della specie, in una fase di elevatissima densità demografica, alta globalizzazione e generale meticciato hanno sempre meno senso e cogenza, e sono quindi destinati a ridimensionarsi, attenuarsi, scomparire?) 

Anche in Minority Report la storia messa in scena, tratta da un racconto di Philip K. Dick,  ha come perno generatore il rapporto amorosissimo tra un padre e suo figlio bambino. E così come nella sostanza accade in Bambini nel tempo di Ian Mc Ewan, anche nel film di Spielberg,  mentre si divertono a fare i tuffi in una affollatissima piscina pubblica, in alcuni istanti di disattenzione qualcuno rapisce il figlioletto al padre, che ne ha la vita irrimediabilmente spezzata. Il protagonista rompe con la moglie, per lenire la disperazione si dà alla droga,  e poi si infila in una serie di vicende drammatiche e carambolesche la cui origine resta  sempre la tragedia della perdita del figlio. Tragedia da cui, per obbedire alle leggi hollywoodiane del lieto fine, il protagonista in conclusione uscirà scoprendo che il traditore, il vero regista occulto delle sue sventure  è il suo grande capo e protettore, ma riuscirà a liberarsene sciogliendo così il nodo del sortilegio negativo da cui era imprigionato, si rimetterà con la moglie cui era sempre rimasto fedele e innamorato. L’ultima immagine del film presenta la coppia teneramente abbracciata, in primo piano la mano di lui che accarezza il pancione di lei nuovamente incinta. 

Ancora una volta la storia del film si avvia con un figlio bambino che scompare, e si chiude con un altro che, in germe, lo sostituirà. Felicità e infelicità, tragedie e loro superamento si direbbero avere sempre per Spielberg origine e soluzione all’interno di un nucleo famigliare, nel buono o cattivo funzionamento dei rapporti tra i suoi componenti primari.  In più, in questo film c’è di molto interessante la centralità degli occhi come organo e funzione strategica vitale nel sapere o meno vedere le cose. In alcune battute che ricorrono (“In una terra di ciechi beato il monocolo”, oppure un continuo e quasi ossessivo interrogare: “Riesci a vedere?”), Spielberg ci segnala che la verità delle cose sta in bella mostra e in grande evidenza, basta volerla cogliere e vedere. Siamo noi che spesso preferiamo non vedere, e, insieme, c’è chi fa del suo meglio per nascondercela. Ma la funzione della letteratura, dell’arte e quindi del cinema, non è di farci vedere quello che la realtà - e chi ci vuole mantenere in stato di minorità, complici le nostre stesse debolezze e fragilità - tende a tenerci nascosto?

Anche ne La guerra dei mondi , tratto da un racconto di H. G. Wells, il nucleo ossessivo del film è concentrato nel difficile e complesso problema del rapporto (di accettazione, comunicazione e intesa) tra padre e figlio. La storia parte sempre da lì, da una lampante e apparentemente insuperabile difficoltà di pigliarsi tra padre e figlio. Se non si mettono a picchiarsi poco ci manca…  Bene, i due rivali e antagonisti si abbracciano e reciprocamente riconoscono solo alla fine, dopo mille angoscianti peripezie alle prese con cattivissimi mostri invasori. Meditate  gente – sembra dirci il film –:  perché un padre e un figlio possano andare d’accordo ci vuole prima la capacità di superare prove di una difficoltà inenarrabile. La guerra dei mondi è in realtà quella che scoppia inevitabilmente tra padre e figlio e che i due devono affrontare e vincere – sotto gli occhi vigili e giudicanti della madre/moglie che chiede ai due prova del loro effettivo valore  – se vogliono alla fine fare pace e andare d’accordo.

Ragazzi, ma non è che l’ottimo Spielberg si porta appresso lo strascico di rapporti famigliari con mamma e papà traumatici, insoddisfatti e irrisolti? E può essere mai che il cinema, e una magnifica capacità di realizzarlo, sia anche il set a lui necessario per esprimerli, rappresentarli, catarticamente esorcizzarli?