Linha do passe – Linea di passaggio
Questo è un film brasiliano che per chi si attende sul Brasile certi tratti, aspetti e ingredienti, non ha nulla. Niente mare, niente spiagge, niente rigogliosa ed esuberante natura, niente giovani corpi danzanti e sinuosi, niente musica carezzevole ed eccitante, niente culto della forma, niente salute e bellezza: questo è un film ambientato nello sprofondo squallido della più miserabile periferia di San Paolo, e ha per protagonista un gruppo famigliare che più brutto e sfigato è difficile trovare. La madre, distrutta dalla fatica del servizio a ore in casa altrui, dalle sigarette e dall’alcol, tiene un nuovo figlio in pancia e in casa altri quattro maschi dai dodici ai venti, tutti avuti da uomini diversi. E appena i datori di lavoro la vedono con una nuova pancia, subito la licenziano. I figli sono ragazzi tipici di quell’ambiente misero e famigliarmente deprivato: si danno da fare per ottenere qualche lavoretto, consegnano pacchi con il motorino, servono i clienti di un distributore di benzina. I guadagni sono scarsi, la fame di soldi è cronica. Poi ognuno coltiva il suo sogno segreto. Il più piccolo, meticcio perché figlio di un padre nero che non ha mai conosciuto, marina la scuola per girare continuamente la città sugli autobus: è innamorato del ruolo dell’autista, ne spia le mosse, impara a memoria le tecnica di guida. Un altro è bravo al gioco del calcio, si sottopone a continui provini per entrare in qualche club quotato, falsifica anche la data sulla carta di identità perché ha già vent’anni, e chi ne ha più di diciotto neanche viene preso in considerazione. Il terzo fa il fattorino con il suo motociclo, di cui però deve pagare le rate, e così non ha mai un soldo per concorrere al mantenimento della sua ragazza e del figlio bambino. Il quarto lavora a una pompa di benzina ed è seguace di una delle tante chiese protestanti, di quelle dove ogni preghiera è un inno isterico a Gesù e una implorazione a essere salvati. Come servirsi del pretesto di un uomo presunto dio vissuto duemila anni fa per rassicurarsi qui e ora che si è di qualche interesse per se stessi e per gli altri. Poi rientra la notte a casa, si chiude in bagno, unico luogo in una famiglia numerosa che garantisca un po’ di intimità, e lì in solitudine sospirando si masturba.
E così grosso modo proseguono le giornate. Alla fine, tutti i componenti del misero e scalognato gruppo arrivano all’appuntamento con il destino: la madre è colta da travaglio a casa in totale solitudine, e si consola pensando che potrebbe anche essere finalmente una femmina; il ragazzo calciatore talentuoso viene inserto all’ultimo minuto nella partita decisiva, si procura un rigore e si appresta a tirarlo. L’altro, benzinaio mistico fanatico e onanista, si ribella al padrone che lo accusa ingiustamente di essere un ladro, lo aggredisce come una furia picchiandolo a sangue e lasciandolo a terra mezzo morto. Il terzo, fattorino motorizzato con ragazza e figlio che non riesce a mantenere, decide di ricavare maggior profitto dalla vita dandosi con un amico agli scippi e alle rapine: ma all’ennesima qualcosa va storto, e tutto precipita.
Il regista – Walter Salles, autore di Central do Brasil – ha il colpo di genio strepitoso di fermare il film sulla soglia dell’ultima scena che precede il compimento di ciascuna storia. La madre è lasciata sola al momento del parto e non si saprà se la creatura nascerà femmina come lei, arcistufa di maschi violenti e ribelli, ardentemente desidera. Il figlio aspirante giocatore tirerà il rigore che deciderà del suo futuro, ma lo stacco crudele dell’immagine ci impedisce di sapere come è realmente finita, e intanto qualcuno fuori campo commenta sconsolato che San Paolo ha venti milioni di abitanti, ogni anno due milioni di ragazzi sognano di diventare Kakà. Il benzinaio religiosissimo che ha ceduto al raptus omicida viene lasciato che cammina, dopo una solenne sbornia, su una strada vuota mentre ripete: “vado avanti, vado avanti, vado avanti” come un automa con lo sguardo perso nel nulla. Il padre del bambino nonché rapinatore sfigato scappa e si rifugia dentro una discarica inseguito dal suono delle sirene della polizia. Il dodicenne nero alla fine proprio non ce la fa a resistere, sale su un autobus lasciato incustodito in deposito, mette in moto e parte guidando tutto solo, così come ha imparato in giorni e giorni di osservazione attenta. Dove andrà, dove arriverà, non lo sapremo mai. In questo film non c’è finale né lieto né triste, una fine del racconto proprio non c’è. E’ come se Walter Salles ci dicesse che queste storie non hanno mai fine, sono universali e eterne, potrebbero essere ambientate a Napoli, Palermo, Beirut o Nuova Delhi. Sono storie raccontate senza bellurie e addolcimenti, senza inganni e infingimenti, raccontano vicende di solitudine e difficoltà, scacco e fallimento, infelicità e insuccesso. E questa d’altra parte è la condizione di gran parte dell’umanità nel mondo. Non occorre caricare i toni, inventarsi melodrammi infarciti di melassa e colpi di scena. Si capisce da alcuni dettagli che tutti i protagonisti della famiglia messa in scena dal film sotto sotto si vogliono un gran bene, ma mancano proprio le condizioni fisiche, mentali, morali e materiali anche per semplicemente mostrarlo. I poveri sono uguali da per tutto, sono brutti, sporchi e infelici. Sì, sono umanissimi come e forse più di noi, soltanto che sono troppo occupati a sopravvivere per poterlo dimostrare. Sono nostri fratelli in stato di difficoltà, penuria e abbandono cronico. Il regista ce li propone e fa conoscere con realismo sobrio e partecipe; finito il film, ci accorgiamo che è riuscito a infilarceli sotto pelle.
Walter Salles dà del Brasile una immagine tristissima e dura, senza falsi pietismi o sconti. Calcio e religione sono tratteggiate come vie di fuga di massa, poveri ripari patetici e tentativi di inutile riscatto dal naufragio collettivo. Se siete attaccati a una immagine del Brasile sensuale e radioso, danzante e canterino, questo è il film che vi ci vuole per completare di quel Paese l’immagine vera e intera - e in questo ricorda Truppa d’elite, trucida discesa ad inferos nelle favelas di Rio. La linea di passaggio del titolo è evidentemente quella tra la speranza e la disperazione, la pacifica e civile convivenza e il precipitare dell’aggressione, la salute e la malattia, una vita precaria e la sua fine subitanea e rovinosa. Per chi non ha reddito e passa la sua vita nella promiscuità di una topaia, superare tale linea è accadimento ahimé del tutto facile.
Anche questo film è uno Shock Brasil, del tutto veritiero e realistico, ma agli antipodi rispetto allo shock da me provato nell’impatto con la bellezza di Salvador de Bahia e di Rio. Senza la bellezza delle spiagge e senza il mare, la povertà e la miseria, la durezza della vita, trovano riparo solo nel tifo calcistico e nel fanatismo religioso, e questo è l’approdo al finale disastro.
Gian Carlo Marchesini