Vicky, Cristina, Barcelona
Ieri sera mi sono visto, su Sky e un po’ in ritardo rispetto alla prima nelle sale, Vicky, Cristina, Barcellona di Woody Allen. Dico subito che gli ultimi film di Allen non mi hanno entusiasmato. Basta che funzioni, ad esempio, mi è sembrato l’ennesima riproposizione di un flusso inarrestabile di parole e parole da parte di un personaggio interpretato sì da un altro attore, che continua però a prestare la sua maschera al sempiterno, e in questo caso un po’ stucchevole e ripetitivo, Woody. Parole a volte sferzanti, a volte ironiche e spiritose, inesorabilmente le stesse e ormai troppe volte ascoltate. Questa volta, nel film girato a Barcellona e Oviedo, Woody Allen sfodera il suo migliore estro creativo. Dentro case, strade, piazze, musei, luoghi, città, paesaggi, atmosfere tra le più intense e caratteristiche della Spagna esuberante e vitalistica, con una colonna sonora intessuta delle note carezzevoli e suadenti della chitarra, un quartetto di magnifici attori, tre donne (Scarlett Johansson, Rebecca Hall, Penelope Cruz) e un uomo (Javier Bardem) prestano la loro arte a rendere credibile e coinvolgente la giostra, il tourbillon del farsi e disfarsi dei legami amorosi, in un libertinaggio danzante e trasgressivo che resuscita le sperimentazioni spericolate dei migliori anni ’60 e ’70. Lui e lei, due lei e un lui, lei e due lui, nella ricerca di un attraversamento e capovolgimento e riproposizione erotica trasgressiva dei ruoli famigliari, nella tensione di non perdersi nulla, in una ricerca e rincorsa anelante e mai sazia di compiutezza e pienezza, nell’eterno movimento pendolare tra novità/scoperta e stabilità/sicurezza, nell’accensione inesausta di un confronto esistenziale e filosofico sul bisogno di identità vera e contro la prigionia dei ruoli da riempire biblioteche di infiniti testi – dentro un mare di goffaggini e contraddizioni, ingenuità e complicazioni, parzialità e amputazioni, entusiasmi travolgenti che precipitano in distruzioni e depressioni -, Woody Allen ha ambientato in una calda e sensuale Spagna, fuori da calchi e regole, contro ipocrisie e convenzioni, la ricerca di una apparentemente attingibile ma sempre chimerica e irraggiungibile felicità amorosa. All’insegna del motto: possiamo vedere che succede se liberiamo insieme l’anima e l’animale? E che tutto il resto si fotta. Avete presente La Ronde di Max Ophuls? Ecco: rivisitata, attualizzata, rivitalizzata. Ora, che una ventata poetica così scintillante e viva, così tenera e struggente, così inaspettatamente intensa – di come vorremmo e non riusciamo a essere, di come siamo in qualche misura stati in una stagione di sovversione generosa e imprudentemente avventata – ci venga proposta da un geniaccio ultrasettantenne, spiega perché del film io non mi sia perso, rapito, una sola sfumatura o goccia. Felice di avere goduto una autorevole conferma che il disordine amoroso e la mai rassegnata ricerca di quegli anni continua proficuamente a covare tanto da ispirare ancora opere così fresche, godibili, squisite.
GianCarlo Marchesini