Gli abbracci spezzati di Almodovar
Quando la storia è puro pretesto, e il cinema è adorato feticcio.
Io de Gli abbracci spezzati di Almodovar non è che abbia capito bene tutto, il senso e l’intreccio, il chi e il dove, il prima e il dopo. E, ad essere sincero, da un certo punto in poi della visione mi sono anche reso conto che della congruenza e della coerenza della trama non mi importava più di tanto. Flash back, avanti e indietro, incontri e agnizioni delle diverse generazioni mi sono sempre più sembrati puri pretesti. Quello che invece mi risultava del tutto chiaro è che Almodovar è innamorato dei materiali che concorrono a realizzare il film come il feticista è totalmente preso e perduto d’amore per tutte le parti del suo corpo adorato.
E allora, al di là della storia e delle innumerevoli varianti che per Almodovar sembrano costituire puro pretesto, è ogni singola immagine e inquadratura, elemento e atomo di cui il film è composto a costituire per il regista spagnolo tesoro inestimabile e bene prezioso. Basta e avanza il movimento di camera che coglie e accarezza la lacrima di Penelope Cruz che cade sul rosso fiammeggiante del pomodoro, l’inquadratura che indugia sui piedi dell’amata attrice superbamente infilati in calzature dal tacco vertiginoso, la stessa Penelope che entra dalla porta e in scena l’istante preciso che le consente di sovrapporsi all’immagine di se stessa proiettata sullo schermo a recitare sul proprio labiale le frasi corrispondenti esatte. E la sua caduta lungo i gradini a spirale dell’intera scala (quante immagini di tanti film che hanno fatto la storia del cinema, lì dentro!). Oppure, se volete, il colpo di genio della macchina che lentamente si alza in volo, e quella che sembrava essere una superficie geometrica arsa e combusta, un possibile quadro a ricordare Chagall o Mirò, si rivela invece essere un pezzo del naturale paesaggio dell’isola vulcanica di Lanzarote.
Insomma, in un film fitto di storie intrecciate come gli strati di una torta, ciò che Almodovar mostra di amare e ci fa amare sono i singoli raffinatissimi passaggi, momenti e movimenti della sua arte: il ritmo, l’aura, il dettaglio. Almodovar dichiara così in modo esplicito il suo credo: il film deve essere portato avanti e a termine a ogni costo, tutto il resto non ha importanza alcuna, o soltanto se a ciò funzionale e subalterno. Almodovar nel suo cinema – impudicamente, golosamente – proprio si immerge, affonda e – non trovo verbo migliore - ci scopa. E secondo voi, un povero e devoto cinefilo come me non dovrebbe altrettanto ingordamente abbandonarsi e cedere? Ecco, non chiedetemi di raccontarvi tutti gli intrecci delle storie del film: mi sono provato a mettere giù in poche righe il perché delle forti emozioni estetiche che la sua visione mi ha suscitato.
Gian Carlo Marchesini