Il gesto di Ettore di Luigi Zoja

Appunti sulla scomparsa del padre

suggeriti dalla lettura dell’ultimo capitolo (“Il padre oggi”) del libro.



Il gesto di Ettore (Bollati Boringhieri editore) è suddiviso in quattro parti: Preistoria, Antichità e mito, Modernità e decadenza, Il padre oggi, più una Introduzione e una Riflessione finale. Sono oltre trecento pagine di riflessioni argomentate e documentate, sempre stimolanti e spesso affascinanti. Mi sono particolarmente concentrato nella lettura e commento del capitolo su Il padre oggi, e la prima osservazione che mi viene da appuntare è la seguente.

Nelle riflessioni di Luigi Zoja la figura del padre non appare persona viva e limitata, con i suoi specifici desideri e bisogni, sentimenti e inclinazioni. Non ha il pathos dell’essere umano appassionato e problematico, unico e transeunte. Per Luigi Zoja il padre è fondamentalmente - o è stato, o ha da essere - guerriero e sacerdote, simulacro e simbolo, indefettibile e immodificabile ruolo. Egli svolge una missione – “innalzare, iniziare, benedire” - che, in quanto padre, l’uomo adulto deve semplicemente accogliere ed espletare. Essa è immutabile ed eterna, essendo stata stabilita da Ieohva fin dai tempi dell’Antico Testamento. E necessaria: in sua assenza, il figlio viene carnalmente generato, ma non adottato e reso spiritualmente, completamente uomo.

Per mantenerci in tempi a noi vicini, nell’America dei fondatori, Zoja sostiene che il “temperamento protestante”, “la severità delle strutture patriarcali” ancora coincidevano. I padri erano “maestri di valori”. E’ con la Rivoluzione industriale che i padri non sono più maestri di vita perché troppo presi a lottare e competere nella “caccia al reddito”. E’ qui che avviene una lacerazione e una regressione della figura del padre alla fase antica dei maschi cacciatori.

Scienza, tecnologia, progresso sempre più incalzante e rapido, primato di un desiderio insaziabile di consumi promossi da un tirannico mercato, hanno provocato la morte di Dio, poi del padre, e infine anche del prossimo. L’avvento e il dominio della “società orizzontale dei fratelli” ha prodotto la fine di quella “verticale” dei padri, che legava saldamente la realtà quotidiana alla storia, ai simboli e ai riti, alla metafisica dei cieli.

Il femminismo e il Sessantotto hanno dato a questa involuzione regressiva il colpo di grazia. Della triade fraternità, solidarietà, libertà, conquista e lascito della rivoluzione francese, il Sessantotto ha privilegiato l’ultima, che si è trasformata in libertà coatta e insaziabile desiderio di consumare.

I nuovi padri, che si occupano con attenzione e tenerezza dei bambini piccoli, sollevano le donne dal compito/impegno dell’accudimento materno, consentendo loro di appropriarsi e assumere parti della tradizionale funzione dell’uomo e di affermarsi e fare carriera nel lavoro. Ma così l’uomo si dimette da padre che trasmette i valori e il senso della vita, per regredire, nella migliore delle ipotesi, a balio e vice mammo, a volonteroso compagno di giochi per i figli. Nelle attività professionali e nel mondo del lavoro moderno l’uomo non trasmette più competenza e abilità specifica racchiuse in un mestiere, ma regredisce all’antico ruolo del cacciatore, anche se non più di animali ma di reddito: cacciatore di reddito alla pari dei suoi compagni maschi adulti diventati insieme fratelli e competitori avversari.

Condizione e prerogativa dominanti oggi sono l’intercambiabilità e l’omologazione, l’appiattimento orizzontale in cui tutti si è uguali. Davanti all’incessante e incalzante progresso nella conoscenza e nei linguaggi della sua trasmissione, oggi tutti siamo parimenti apprendisti. Ma le nuove generazioni, i nostri figli, sono più rapidi di noi nell’ imparare. Se c’è quindi qualcuno che deve mettersi trafelato sulla loro scia è l’antico, spodestato e umiliato padre.

Il quale non svolge più nessuna delle tradizionali antiche funzioni di introduzione/iniziazione alla vita. Non insegna neanche più al figlio a montare a cavallo e ad andare in bicicletta. Oggi è il figlio a insegnare al padre a usare il computer. Il risultato, nel tradizionale impianto del rapporto tra padre e figlio, è il capovolgimento di parti e ruoli, il vuoto di senso, l’estraneità, la disistima, e spesso anche il disprezzo.

I giovano oggi si modellano sul coetaneo vicino, l’apprendimento orizzontale, tipico dei ragazzi, ha il vantaggio di essere veloce, ma ha perso completamente le prerogative di essere individuale e iniziatico. Nell’iniziazione si soffriva, ma si acquistava identità. Oggi nessuna identità è più certa, mentre è certo che ci siamo abituati a evitare la sofferenza per ideologia. Oggi i padri nei loro figli “non versano simboli, versano soldi nei conti bancari”. Bene che vada, “i figli sanno che il padre li ha voluti, ma non sanno se li ha voluti uomini”. Lo stesso consumo impressionante di droghe è “un inconscio tentativo iniziatico di ricostruire i riti di iniziazione scomparsi”. “La distruttività viene usata per riempire bisogni di crescita insoddisfatti.”

Invece, il figlio dal padre vorrebbe benedizione, iniziazione, elevazione. Vuole riti simbolici colmi di senso. Perché “le intenzioni sono soggettive e contingenti, il rito è assoluto e eterno”. “Il rito della benedizione ha una forza autonoma, l’immagine della benedizione paterna è archetipica”. Ogni figlio ne avvertirà un giorno il bisogno. Se il bisogno non sarà soddisfatto il figlio avvertirà una privazione al cuore della propria identità. “Con il laicismo il rito è andato perduto. Oggi siamo al collasso dei riti di passaggio.”

Morto Dio, morti simboli, preghiere, riti, non essendo più necessarie - per la trasmissione di sapienza e conoscenza, civiltà e cultura – “elevazione, benedizione, iniziazione”, è morto anche il padre. E la rivalità e la furia omicida, che da sempre hanno pervaso il rapporto tra fratelli, ha oggi come bersaglio dei figli gli stessi propri latitanti padri.

Il ritiro paterno è reso irreversibile dalla fine dei riti e dei miti. Questo ha a che vedere soprattutto con la modernizzazione, e la modernità non è reversibile.”

Luigi Zoja, con linguaggio e toni ultimi e a volte persino apocalittici, da amareggiato profeta dell’Antico Testamento, argomenta sul come e perché oggi siamo finiti su una rotta completamente sbagliata. Il mondo e la società occidentali, la realtà della famiglia e del lavoro, il rapporto padre-figlio, si sarebbero rovinosamente desacralizzati, laicizzati, mercatizzati, anomizzati, deresponsabilizzati, femminilizzati.

Ma – mi sono chiesto - per quanto importanti, saranno i racconti, i valori, le figure e i materiali simbolici dell’Antico Testamento (la linea verticale che lega il presente al passato, la terra al cielo, il figlio alla figura del padre patriarca e insieme a un eterno Iddio) capaci di dare ricchezza di senso e continuità alla vita umana? E chi, cosa e come riporterà la barra sulla giusta rotta? Sarà mai possibile tornare ad attingere alla fonte originaria, alla cultura e all’esperienza agro-pastorale che ha dato vita alla narrazione mitopoietica dell’Antico Testamento? I lai e i lamenti non ricordano in qualche modo quelli dei sacerdoti lefevriani che pretendono la messa valida solo se in latino, o di chi ha considerato Darwin – e Galileo, e Giordano Bruno - un pericoloso e sovversivo destabilizzatore?

Ma poi, cosa c’è di tanto sconvolgente e terribile se la donna si attrezza di più e meglio su terreni a lei nel passato estranei, e si sperimenta sul versante del lavoro tradizionalmente maschile, e l’uomo su quello materno femminile, e – udite! udite! – i padri si mescolano e alternano con i figli a fare un po’ l’uno e un po’ l’altro? E quale è meglio, la figura dell’uomo guerriero che indossa l’armatura e impugna l’arco e la lancia, e del sacerdote che agita l’aspersorio benedicente, o quella che entra in intimità e gioco con i figli, impara anche da loro, assume qualche tratto e sensibilità tradizionalmente femminili, si fuma in relax con gli amici una (temibile e regressiva) canna?

E’ una costruzione solenne e millenaria ad essere abbattuta, disarticolata, rimescolata: uno choc potente e drammatico. Ma sicuri che non sia anche un passaggio nel percorso di liberazione evolutiva, di scompenso e disagio, ma anche di sviluppo e crescita, di grande liberazione e sollievo per l’essere umano?

Ma poi, cosa differenzia e distingue una figura paterna come quella delineata da Zoja – carica di compiti, prescrizioni e precetti di un così elevato profilo simbolico – da quella insegnata ancora oggi nella scuole coraniche? Gli eccessi della civiltà liberistica e consumistica sono sotto gli occhi di tutti: lo stesso Zoja conviene però che non se ne esce vagheggiando un ritorno al passato. Tantomeno, io penso, e in questo sono certo sarà d’accordo anche lui, auspicando una islamizzazione del mondo. E quale è meglio, come figura, quella dell’uomo che indossa l’armatura, impugna l’arco e la lancia, insemina materialmente per far nascere, e spiritualmente per far rinascere e crescere, o quella di chi è anche capace di farsi utilmente “inseminare” apprendendo e mutuando dalle donne, giocando con i figli e imparando da loro? Le vie dell’inseminazione, della iniziazione, della benedizione, sono quelle e solo rigorosamente quelle tracciate una volta per tutte nell’Antico Testamento, o possono essere varie e reciproche, impreviste e nuove?

Insomma, senza il sostegno dell’apparato di armature e insegne, formule e riti, vestimenti e gesti simbolici, veramente rischiamo di non essere attivi e fecondi, individuati e riconosciuti? Ma perché non dovrebbe essere il grado di apertura e plasmabilità, la stessa intima e disarmata nudità a rivelare e far meglio circolare la nostra vera essenza? Non, anche, il togliersi una ingombrante, pletorica e spesso patetica maschera? Zoja induce al sospetto di credere che, togliendoci la sacra e biblica impalcatura, rinunciando all’armatura e al linguaggio simbolico di Ettore, a svelarsi insopportabile sia soltanto il nostro nulla.

Dovessi riassumere quello che per me è il senso del libro, lo formulerei in questa domanda: chi, in tempi di trionfo della modernità e della globalizzazione, cioè di mutamento e trasformazione sociale sempre più rapidi e incalzanti, spesso caotici e incomprensibili, può svolgere nei confronti delle nuove generazioni la fondamentale funzione di “uscire dal non tempo per entrare nel tempo”, di “conoscere chi sono i continuatori”? Se non è più la figura classica – biblica, e spesso catastroficamente castrante e oppressiva – del padre, come e dove, attraverso chi e cosa prenderà forma questa funzione di irrinunciabile magistero?



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La lettura del libro mi ha anche fatto riflettere su quanti padri io ho avuto nel corso della vita, amati e venerati per la loro capacità di esprimere bellezza e comunicare saggezza: scrittori e artisti, poeti e scienziati, umani vivi e defunti, pieni e veri. Ma non per questo sempre e soltanto personaggi importanti, pubblicamente stimati e riconosciuti, anche normali persone in carne e ossa: compreso Italo, il mio vicino di casa, campanaro e sacrestano e contadino, a casa del quale, ragazzetto, spesso mi rifugiavo per sottrarmi al troppo di problematica e controversa anaffettività della mia, a suonare con lui le campane, a imparare come coltivare ortaggi e piante, o allevare animali domestici, ad ascoltare la sua sapienza concreta nel raccontare le ragioni della vita in semplicità di linguaggio e buon senso, in ben temperato epicureismo. Non ho mai mangiato più così volentieri le fette di polenta abbrustolite alla brace, e condite con qualche pezzetto di salsiccia, come quelle da lui preparate al suo focolare, accompagnate da un modo così intensamente grato di gustarle condite di battute grasse e sulfuree, e di un sorso di vino clinto, come può soltanto chi ha con la vita un rapporto superbamente sano e umilmente positivo.

E mi sono anche chiesto, alla fine della lettura del libro, quanti figli ho avuto io nel corso della vita: non perché frutto del mio seme, ma perché, con un qualche mio contributo di magistero e guida, abbiamo interloquito e interagito all’insegna di una scelta di adozione reciproca che magari non ha avuto cerimoniali di innalzamenti e benedizioni, né di particolari preghiere e riti, ma di libera e apprezzata scelta di attenzione reciproca, condivisione, ricerca di orizzonti, unità e integrazione. Nel corso degli anni sono stato più volte scelto come padre, così come ho più o meno consapevolmente scelto io qualcuno cui pormi e propormi come figlio. Magari in ragione di una opposizione e rifiuto condivisi della formale e istituzionale autorità gerarchica, mossi dalla stima e fiducia in una autorevolezza che si conquista condividendo scelte ritenute socialmente, politicamente, eticamente giuste. In questo, il Sessantotto, con le sue ridondanze e anche errori, mi è stato di grande aiuto – meglio, ne è stato detonatore e cassa di risonanza. Perlomeno il Sessantotto che le mie generazioni hanno voluto, cercato di promuovere, riconosciuto.