La bocca del lupo
Opera seconda di Pietro Marcello, trentaquattrenne regista napoletano, il film, che ha vinto il primo premio dell’ultimo Festival di Torino, è racconto e testimonianza di vita vissuta degli ultimi e degli infimi, si svolge tra carceri, grotte, bar e carrugi dell’angiporto di Genova (Via del Campo, Via Pré…), mette in scena vicende che riguardano prostitute e transessuali, tossici e alcolisti, insomma, la cosiddetta feccia dell’umanità. Tutto nel film è raccontato in modo semplice e diretto, essenziale e minimalista: le persone reali raccontano la loro vita in posti reali, senza ricostruzione di set, senza infingimenti, additivi e correttivi. Non c’è ricerca effettistica di eleganza e belluria: il marciume è marciume, senza furbate estetizzanti e consolatorie. Lo sghembo e sgarbato, il violento e lo sporco, il primitivo e l’impuro sono poco allettanti e carini da vedere, inutile illudersi. La bellezza toccante del film sta tutta nel fatto che in quell’onesto, semplice e diretto racconto di vite immerse nella derelizione c’è comunque più autenticità e dignità di quante se ne possano trovare nella vita di un palazzinaro di successo che vive ai Parioli, o in quella di qualsiasi altro odierno furbetto sia del quartierone che del quartierino, sia forza italiota che pidino.
Nel guardare il film, seguendo lo scorrere delle immagini e delle testimonianze di vita dei protagonisti, ci si sorprende a chiedersi: ma io con questo che c’entro… Poi vi scoprite con il groppo in gola e il battito del cuore accelerato. Perché questo, primordiale e pauperista, evangelico e pasoliniano, è un film che semplicemente e direttamente dice che malgrado tutto, sbarazzandosi di pompe magne e retoriche, coazioni dementi al primato, al successo e alla ricchezza, , ciò che conta ed è fondamentale è un legame di solidarietà e amore, e che anche nelle forme e circostanze della peggiore merda della vita amor semper vincit.
Secondo lo standard delle carinerie telecinematografiche imperversanti, La bocca del lupo è un film apparentemente “sciatto e sporco”, ma in realtà si tratta di un’opera semplicemente necessaria. Dice moltissimo con il ricorso a risorse e mezzi minimo (è costato centomila euro: pensate ai 400 milioni di Avatar…). Non fa l’occhiolino, non ricorre a mezzucci e trucchi per sedurre, per farsi assolutamente piacere. Si direbbe film fatto in società dalla essenzialità severa e rigorosa di Francesco D’Assisi e Roberto Rossellini. Se questo a voi pare poco…
Gian Carlo Marchesini