L’uomo che verrà
Giorgio Diritti, regista cinquantenne nato a Bologna, non è che faccia molti film: sicuramente meno di quelli di cui si avverte il bisogno. Il vento fa il suo giro, del 2005, è il suo penultimo visto e apprezzato da molti. Per la cronaca, in una sala a Milano è rimasto in programmazione un anno e mezzo, è stato presentato in 60 festival in giro per il mondo e ha raccolto 36 premi.
Giorgio Diritti è uno che fa i (purtroppo pochi) film suoi ricorrendo allo stretto necessario: innanzitutto una comunità coralmente protagonista, insediata in un paese abitato da contadini e pastori, posto tra valli e colline, boschi, rogge e torrenti. In questa epoca di divorante urbanizzazione metropolitana, questo è un modo che ci aiuta a non perdere contatto con i valori e i bisogni fondamentali della nostra condizione e natura. Si tratta quindi di un gruppo di famiglie che affrontano quotidianamente la vita e le sue varie e diverse stagioni, ricavando dagli animali e dalla terra il necessario per vivere. In quella comunità povera e laboriosa si nasce, si cresce, si va a scuola e in chiesa, ci si innamora e ci si sposa, si fanno figli, si fatica sui campi e dietro gli animali, ci si vuole bene e si litiga, ci si aiuta e tutto si condivide, ci si ammala e poi si muore.
Nel film del 2005, Il vento fa il suo giro, l’incipit della crisi per una comunità dell’alta Val d’Aosta è l’arrivo di una famiglia di forestieri a portare il “giro di vento” delle novità e dell’innovazione: nel linguaggio, nella mentalità, nelle credenze e consuetudini, nella tecnica e modalità di lavorare e concepire il rapporto con gli altri e il mondo. Progresso, cambiamento, trasformazioni, attese e speranze, rischi e pericoli, conflitti e lacerazioni – il tutto raccontato con la macchina da presa che fruga gli occhi e le pieghe espressive delle facce, ascoltando le scarne e essenziali parole della gente, fidando sulla straordinaria capacità di una comunità reale di partecipare, immedesimarsi, mettere in scena la sfida, le passioni, e il dramma del cambiamento in tutta la sua epica: svolte, colpi di scena, ansie per il timore della sconfitta e attesa spasmodica di una vittoria.
In quest’ultimo film, L’uomo che verrà, la comunità di contadini e pastori è sostanzialmente identica: stessi stili di vita, abitudini, cadenze e ritmi. Cambia zona geografica ed epoca: qui siamo sul crinale tosco-emiliano dell’Appennino, il periodo è quello del 1943-44, in piena e virulenta esplosione della guerra partigiana contro l’invasore tedesco e l’italiota alleato fascista. Il racconto è quello terribile e tragico di una delle tante rappresaglie tedesche come reazione agli agguati tesi dai partigiani, che sfocia nella strage di praticamente tutta la comunità protagonista del film. Sant’Anna di Stazzema, per intenderci, dove il 12 agosto 1944 i tedeschi uccisero 393 civili inermi.
La scelta del regista, formidabile nei suoi effetti, è stata quella di eleggere a protagonista e perno dell’intera struttura narrativa non una figura carismatica e autorevole - il capo partigiano, o l’anziano della comunità, o il prete pastore del suo gregge - ma una bambina di neanche dieci anni,che da quando ha visto morire per una disgrazia il fratellino minore tra le sue braccia ha perso anche la parola. Una bambinetta traumatizzata da un grande dolore precoce: quale punto di vista più vulnerabile e marginale, più capace di lettura primitiva intensa e originale?
La storia è quindi quella terribile di una rappresaglia trasformatasi in eccidio e strage dell’intera comunità di un paese raccontata dal regista in totale soggettiva, attraverso gli occhi, la sensibilità, la capacità di lettura e di comprensione di una bambina muta. A me ha fatto ricordare quella frase del testamento che in sostanza dice: “Ho rivelato agli ultimi quello che ho nascosto ai saggi e ai potenti”. Ciò fa sì che un tema come quello della guerra, della violenza collettiva, della brutalità ammantata da ragioni ideologiche, della morte inflitta ritenendosi ognuno dalla parte superiore e giusta, viene spogliata da ogni giustificazione ideologica, politica e storica, ridotta alla sua essenziale, nuda e inaccettabile sostanza. La morte di massa inflitta in nome di ideali, diritti, proclami e pretesti, attraverso lo sguardo limpido e innocente di una bambina viene svelata per quello che è: un inaccettabile abominio. Certo, i tedeschi sono gli occupanti illegittimi e brutali – “perché non se ne stanno a casa loro con i propri figli?”, si chiede giustamente la bambina – e i fascisti, loro alleati, sono indegna e disgustosa protesi e appendice. Ma anche i partigiani praticano sostanzialmente la stessa logica dell’infliggere in agguato la morte, e questo li rende ingranaggio nello stesso inaccettabile meccanismo. A subirne le conseguenze sono i più deboli, le donne, i vecchi e i bambini, carne in ostaggio votata al massacro.
Uccidere è un delitto che non ha giustificazione, dice Giorgio Diritti nel suo terribile e bellissimo film. La differenza vera è tra uccidere e non uccidere, non chi per farlo ha le motivazioni migliori, superiori e giuste. L’uomo che verrà è il bimbetto appena nato che la bambina, uccisi nella strage dell’intera comunità anche i suoi genitori, riesce a salvare, uniche due creature che sopravvivono all’orrenda carneficina finale. E potrà essere quel bimbetto l’uomo nuovo che verrà, se sarà capace di dirimere i conflitti e le controversie, le divergenze e le contese senza ricorrere alla violenza, alla guerra, alla soppressione fisica di chi diverge, non consente, non è d’accordo, si oppone.
C’è da dire che il film è girato benissimo, con la solennità essenziale e austera di Bresson, Bergman, Olmi. Avete presente il linguaggio di uno spot pubblicitario, mellifluo, servile, berlusconian- puttanesco? Ebbene, L’uomo che verrà si nutre di un linguaggio esattamente opposto. Non vuole stuzzicare o eccitare: vuole che si afferri e capisca - dolorosamente, catarticamente - l’essenza e la verità delle cose. Lavoro che la vera arte non può fare che portando etica, verità, estetica a una sintesi superiore. La comunità delle persone protagoniste è talmente vera nel rappresentare la vita intensa di campagna, l’irruzione e i dilemmi morali ed esistenziali della guerra partigiana, il terribile sgomento della strage finale – storica, vera e reale, altro che le miserevoli fiction del “grande fratello”! - che allo spettatore alla fine sembra di essere stato componente autenticamente partecipe di quelle vicende in quella comunità.
Dopo Avatar, indiscutibile e straordinario risultato cinematografico ottenuto grazie alle migliori tecnologie disponibili, e ai 400 milioni di euro spesi, Giorgio Diritti dimostra come si possa realizzare un film altrettanto straordinario spendendo l’infinitesima parte, produrre un’opera d’arte commovente ed emozionante malgrado il degrado morale, civile e sociale in cui questo nostro disgraziato Paese si trova ridotto. Se in Italia si possono ancora realizzare film come questo, vuol dire che c’è ancora speranza. La faccia straordinaria, lo sguardo, l’intensità e la bellezza espressiva della bambina protagonista è effige degna di una Umanità Anno Zero, di un re-inizio ancora possibile e tutto da giocare. Indimenticabile.
Gian Carlo Marchesini