Pubblico nemico di Michael Mann
Ma chi sarà stato mai John Dillinger, se non un ragazzotto sanguinario, rapinatore di banche tra i tanti che proliferavano negli anni Trenta della Grande Depressione americana? Certo era un tipetto svelto e sveglio: quando entrava armato in una banca per appropriarsi dei soldi altrui, eliminava chiunque gli si parasse davanti. Ed era pure abile e astuto: per un paio di volte riuscì a evadere dal carcere, e innumerevoli altre si divincolò dalla caccia che gli dava l’FBI, allora appositamente costituita e guidata da Hoover, lasciando sempre gli agenti con un palmo di naso – meno l’ultima volta, mentre se ne usciva da un cinema dove proiettavano, guarda caso, un gangster movie. Comunque, non credo di far torto a Dillinger nel definirlo un individuo feroce e spietato: calpestava leggi, principi, responsabilità, obblighi, doveri, incolumità e vite di persone innocenti. Forse, in un contesto storico diverso e circostanze favorevoli, sarebbe anche potuto diventare un buon rivoluzionario: ma così non è stato, checché voglia in qualche modo suggerire Michael Mann, il regista che in un periodo della sua vita dichiarò di simpatizzare per le Pantere Nere. Nel film tutto questo si trasforma in rocambolesco road movie, appassionata love story, saga epica. A Dillinger presta le sue fattezze di bel tenebroso Johnny Depp, un sottofondo di musica dolente e insieme enfatica ne sottolinea le gesta. Il nostro gangster delinquentone diventa così un modello di razionalità e freddezza, rapidità e abilità, battuta pronta e sguardo da serpente incantatore. Lui prende per sé quello che vuole: punto. Si tratti di soldi, beni, vite di persone capitate per caso nei paraggi delle sue rapine - e infine belle donne. Quella che lui sceglie per sé lo fa avvampare di amore eterno, da vero eroe romantico della più languida opera lirica. Ma perché mai noi oggi dovremmo commuoverci alle gesta di un così tristo figuro? Come si permette Michael Mann, regista cinematografico che non è certo un cane (di lui ho apprezzato L’ultimo dei Mohicani e Insider), di proporcelo come un fascinoso angelo del male, tutto di un pezzo come una roccia, ma pronto a squagliarsi in fremiti e languori per la sua bella guardarobiera? Perché dovremmo appassionarci al racconto della scia di sangue e morte che un rapinatore compulsivo lascia alle sue spalle? Uno che fa quella vita lì, suona dura che non sia anche un povero disgraziato: perché dovremmo apprezzare che un suo refolo di umanità sia trasformato in trionfale marcia funebre su una piramide i cui gradini sono i cadaveri, e la musica di accompagnamento il martellare ossessivo delle raffiche di mitra? Ricordo che pensieri simili mi vennero anche dopo la visione del Padrino di Coppola: Marlon Brando campeggiava sullo schermo come monumento e mito in cui tutti i ragazzi in sala - eravamo a Palermo! - entusiasticamente si immedesimavano. Bella schifezza! Dillinger rubacuori, colmo di bello stile, fascino, eleganza: Michael Mann, ma lasciamo perdere, e che i morti seppelliscano i loro morti…
Gian Carlo Marchesini