Hanno tutti ragione. Appunti di lettura.
Con Hanno tutti ragione (Feltrinelli 2010), Paolo Sorrentino mette in scena le vicende di un lestofante bulimico e grandioso, un cantante napoletano di fama e successo planetari – alla Sergio Bruni o Mario Merola, per intenderci –, grande sciupa femmine e sniffatore estremo di coca, come pretesto e calco mimetico per prodursi in un monologo di oltre trecento pagine che raccontano l’intensità (e la vacuità) di una vita vissuta, a Napoli e in questo nostro Paese, oggi.
Il calco mimetico è innanzitutto linguistico: un eloquio solenne e ampolloso, un impasto di tutti i manierismi barocchi e i detriti gergali di cui è prodiga l’alluvionale e magmatica parlata partenopea.
Tony Pagoda - questo è il nome del nostro eroe - straripa, filosofeggia e cazzeggia spernacchiante e scoppiettante pagina dopo pagina. E attraverso il suo eloquio tra il greve e l’abrasivo ci somministra la sua intricata e lussureggiante storia, il racconto dei suoi esaltanti e malinconici successi, la sua concezione e visione del mondo: lustrini e pailettes, palcoscenici e locali notturni, Radio City newyorchese e provincia italiana, interminabili tourné, stanze d’albergo a ore, migliaia di km pigiati in automobile, fans scatenati e infiniti gorgheggi. Un mare di affollata e sgangherata solitudine.
All’inizio della lettura si fatica ad ambientarsi in tanto lussureggiante kitsch, in così ripetute e frenetiche passerelle ipertrofico-egolatriche, nell’alternarsi mai sazio di Rothman’s aromatiche, drink alcolici a fiumi, strisce di coca a chili, stordimento e sperdimento a fetere e fottere. Poi il rutilante caleidoscopio prende, l’altalenarsi di alto e basso, feccia e miele, malinconia estenuata e corporalità coprolalica, funziona. Fino a quando, nella messa in caricatura del sublime e nella trasfigurazione in simil arte di uno squallore infame, grazie al gioco pirotecnico di capovolgimenti e spiazzamenti ci si ritrova inaspettatamente a ridere fino alle lacrime.
Il Tony Pagoda creato da Sorrentino è un monstrum che tiene dentro tutte le vette e gli abissi, la quintessenza distillata dell’arte di arrangiarsi, gli sprofondi del sentimento e le voragini del cinismo della napoletanità più feroce e nichilista.
Hanno tutti Ragione è insieme bubbone abnorme e schifoso, montagna di maccheroni fumanti, cazzotto allo stomaco e carezza. E’ come l’aprirsi di un forziere gonfio di paccottiglia, che però è anche specchio di questi nostri tempi terribili, essenza emblematica di una parte ahimé cospicua della nostra anima malata.
Sesso compulsivo e rapace, droga e alcol a fiumi, esibizione artistica sotto forma di canzonetta di un sentimentalismo melodico rancido e stantio: il tutto incapsulato da un continuo commento fuori campo di rassicurante spicciola filosofia.
Ciò che salva il libro è l’alternarsi continuo di verve satirica, comicità involontaria, sghignazzi di sarcasmo e sussulti di ironia. Ma l’immagine di Napoli e della napoletanità che ne esce è piuttosto inquietante e indigesta.
Nel suo ipertrofico flusso di filosofico cazzeggio, il racconto è disseminato di osservazioni illuminanti. Diverse riguardano il femminile e l’esperienza che della donna ha il protagonista. Ad esempio, una cosa che ho spesso pensato anch’io in anni di vita nei quartieri napoletani e palermitani, e cioè che l’amore dichiarato a squarciagola nelle canzonette e ripetuto di strada in finestra da migliaia di ugole abbia in realtà come oggetto non la donna, ma la mamma. “Insomma, l’amore non se lo sono certo inventati i cantautori. Poi lo hanno con sapienza commerciale trasferito sulla coppia moderna perché esso produceva un fatturato molteplice, agguantava il contingente ma si stava parlando d’altro. Si stava parlando di tutte le nostre madri, in quelle canzonette. L’unico amore riconoscibile, che tocchi con tutto il corpo perché ci stai dentro la pancia.”
C’è anche un capitolo dedicato all’amore struggente e inappagato per una donna inafferrabile e paradisiaca, guarda caso chiamata Beatrice. Ma il ritratto della moglie compagna di vita quotidiana suona del tutto diverso. “Ora alberga lì, immarcescibile, sulla punta del divano e sei bottiglie di lacrime versate vicino al tavolino di cristallo. Vuole ricominciare là dove avevamo interrotto. Vuole che la aggredisca come di consuetudine altrimenti non crede che sta vivendo veramente. C’è nella donna moderna una perseveranza nel litigio che scuote anche gli animi più ripiegati. Nel litigio a tempo indeterminato trova un’intima vertigine di soddisfazione che non la fa desistere. Mai. Mai. Un avvoltoio della discussione prolungata. Con una convinzione ottusa che dentro la schermaglia si annidi la soluzione del problema. Ma dato che secondo loro la soluzione è complessa, allora, per definizione, il litigio deve possedere una sua lunghezza incredibile, estenuante.”
Mi sono poi inaspettatamente imbattuto, da vicentino di nascita, su una riflessione sul perché, per il protagonista del libro, ci sarebbe una differenza drastica tra un napoletano e un vicentino. “Io dico: è in gamba, Albertino”. “E’ strampalato”, dice lei. “La settimana scorsa gli ho chiesto cosa vuole fare da grande, e mi ha risposto che vuole mettere su una fabbrichetta di segnali stradali. Ma che cazzo di desiderio è, per uno di nove anni?” Ridacchio. E aggiungo: “E’ nato a Napoli per sbaglio. Ci ha l’animo di Vicenza, tuo figlio. Conosce il significato a noi oscuro della parola laboriosità.” “Può essere, ma perché i segnali stradali?”. “Vuole mettere ordine”, dico io. “Ma quelli che vogliono mettere ordine, a nove anni, vogliono fare i poliziotti” - ribatte giustamente lei. “Tra industriale e poliziotto c’è una disparità di reddito che non puoi sottovalutare. Te l’ho detto che c’ha l’animo vicentino, quello lì.”
Poi c’è una riflessione non così benevola – sempre formulata dal protagonista Tony Pagoda – sulla figura del docente universitario. “Ho sempre diffidato della preparazione universitaria da quando ho capito che il docente universitario era antipatico, frustrato, vigliacco. Il docente universitario è sempre vigliacco. I libri la sua trincea. La pubblicazione il suo moschetto. Ma dietro non c’è niente. Il suo essere snob è direttamente proporzionale all’incomprensione dell’esistenza. Sono tanto snob. Il problema sta lì, sotto i loro occhi, ma obnubilati dalla pagina scritta, tanto gli sfugge. La vita si srotola anarchica ovunque tranne che, ironia della sorte, sul loro foglio. Vogliono comprendere. E si dimenticano di vivere. A colpi di deduzioni, dimenticano le divagazioni che sono poi il segreto della bella giornata. Puntano alla complessità dell’elenco e omettono la sfumatura che, per grazia del signore, è tutta la vita che sfugge alla catalogazione come un latitante ben protetto.”
Poi, arrivati a superare le duecento pagine, quando vi sentite un po’ sazi dalla frequentazione di questo emporio rutilante di intensa e varia napoletanità, e vi chiedete se valga poi la pena di continuare a leggere ancora, ecco che il romanzo ha una inaspettata svolta, il protagonista pianta in asso moglie e figlia, Napoli e orchestra, e va a rifugiarsi prima nell’atlantica Natal, poi nell’amazzonica Manaus, dentro il cuore più primitivo del Brasile. Fa quello che un numero crescente di occidentali in età adulta sogna: ritirarsi per il resto della vita nel Paese che è cuore per eccellenza del piacere e della bellezza. Il nostro eroe scopre però ben presto che bellezza e piacere, che in Brasile sicuramente non mancano, sono accompagnati e frammisti a piattole, pidocchi e scarafaggi, la lotta costante contro i quali assume in certi passaggi descrittivi un pathos epico a dir poco omerico. Finirà, dopo diciotto anni, anche quel soggiorno tra bellezza e miseria, miasmi e fango, piattole e scarafaggi. E lì, per Tony Pagoda, protagonista del primo notevolissimo romanzo del regista de Il divo, inizia con un colpo di scena la terza fase della vita. Che vi lascerò scoprire leggendovela da soli.
Gian Carlo Marchesini