L’amore buio, un film di Antonio Capuano

Il regista napoletano (Pianese Nunzio, 14 anni a maggio; Vito e gli altri; Luna rossa; La guerra di Mario ) mette questa volta in scena il rapporto agognato e impossibile tra il popolo napoletano – sarà politicamente corretto dire la plebe dei vicoli del centro storico? – e la borghesia ricca, colta, illuminata e nevrotica dei quartieri nobili. Sono come due parti di una stessa città che vivono da sempre scisse e separate in casa, si temono e si odiano, si studiano sospettose, si cercano fameliche senza mai reciprocamente abbandonarsi e saziarsi.

Nelle prime scene del film quattro ragazzotti rozzi e scapestrati come torelli malavitosi, pescano sola la notte al rientro in casa la sedicenne Irene, figlia di famiglia borghese (una adolescente rediviva Eleonora Fonseca Pimentel?). I ragazzotti dei vicoli sono semiubriachi di testosterone e birra, gasati da musica rock e di corse folli nella notte sul motorino: che altro possono fare? Individuata la preda – la dolce, fresca, profumata, elegante sedicenne borghese napoletana – se la intruppano e inzuppano in quattro dietro la saracinesca di un magazzino. E bene fa Capuano a mostrarci della bestiale e orribile scena la sola pudica immagine di un sandalo della ragazza scalciato e miseramente abbandonato.

Poi c’è lo sviluppo successivo del film, con i quattro ragazzotti imbecilli violentatori che finiscono rinchiusi nel carcere minorile di Nisida, tanto panoramicamente affascinante quanto plumbeo e funereo. Uno dei quattro, Ciro, il più tenero ed esteticamente bello, ci ripensa, si interroga, si pente, e poi decide di scrivere lettere su lettere, decine e centinaia, alla ragazza: per tentare di spiegarsi, di capire, di scusarsi, di chiarire. Il ragazzo rappresenta il meglio che ancora sa esprimere la plebe napoletana: scrive poesie, compone rap di violenta catartica protesta. La ragazza, Irene, è una disastrata figlia della migliore illuminata borghesia. Capuano, il regista, si capisce che tifa e fa del suo meglio nel ruolo di complice e mezzano: vuole farli incontrare, stare insieme ma non da violentatore coglione e violentata anoressica, ma da persone vere così diverse eppure reciprocamente attratte, teneramente innamorate.

Ci provano fino alle ultime immagini del film, là dove Ciro esce dal carcere accolto dai suoi e però con gli occhi cerca Irene – e la trova, la vede! Ma è soltanto immagine del suo desiderio, perché anche Irene lo sta guardando intensamente dalla soglia dell’Università americana dove i suoi l’hanno spedita perché dimentichi. E così, con questo poetico e cinematografico escamotage, Antonio Capuano riesce a far finalmente immaginare l’incontro di Eleonora Fonseca Pimentel con il suo bel ragazzo dei vicoli di Forcella - non in veste di carnefice sanfedista, ma di innamorato suo. E così, popolo meridionale e borghesia (non) vissero felici e contenti.

Gian Carlo Marchesini