Molto forte, troppo carico.
Inception di Christopher Nolan.
Quale è il confine tra sogno e realtà: quando si sta sognando, quando si è svegli? E se riuscissimo a trovare il modo per entrare - intenzionalmente, programmaticamente – nel regno dei sogni, quello nostro e quello altrui, nella dimensione del subconscio che li genera e governa? E se quel confine saltasse, e le diverse dimensioni – indiscriminatamente, inestricabilmente – si mescolassero, e iniziasse per noi un viaggio iniziatico e allucinatorio, fatto di proiezioni paranoiche che si materializzano, e le immagini e figure e dimensioni del consueto e famigliare mondo si ammutinassero entrando in guerra tra di loro, e tutte insieme persecutoriamente si lanciassero come muta di cani al nostro inseguimento?
Questo è il mondo caotico e sovvertito nel quale Christopher Nolan ci immerge, coinvolgendoci fino a renderci fisicamente oppressi e turbati, quasi senza respiro e angosciati. Saltano forza di gravità e le altre fondamentali leggi fisiche che finora ci hanno governato, ciò che prima era in alto precipita in basso, e ciò che era sommerso emerge incontrollabile e incontrollato. Il tutto – e qui al regista la voglia di sbalordire e strafare forse prende la mano - all’interno di un percorso sonoro e visivo per la durata di due ore e mezza ininterrotto , sotto forma di un videogioco fatto di agguati e sparatorie, aggressioni ed esplosioni, in una apocalisse incalzante e vorticosa come cinematograficamente così potente difficilmente è dato di sperimentare.
Inception è una sorta di esperienza psichedelica: voi assumete un acido lisergico, entrate nella caverna buia della sala, e lì comincia un viaggio iniziatico così forte da farvi ripetutamente sobbalzare sulla poltrona, così affascinante e intrigante da tenervici fino alla fine inchiodato. Nella storia che si svolge sullo schermo il subconscio diventa una dimensione dentro la quale è possibile trovare un riparo per proteggersi da una realtà esterna mutevole, arbitraria, minacciosa. Ma un dispositivo narrativo e filosofico così originale e complesso, così struggente e drammatico (si sente il respiro del Bardo: noi siamo fatti della materia dei sogni) viene ahimé caricato da un meccanismo di sparatorie e inseguimenti così fragoroso, frastornante e prolungato che la nobile e straziante materia della condizione umana si trasforma a volte in puro videogioco forsennato e gratuito.
Inception è anche un film sull’amore e sulla paternità. Ciò che spinge Di Caprio e la sua amata a cercare rifugio in un profondo e ultimo strato del subconscio, paradiso privato e insieme nascosto mondo parallelo, è la decisione di preservare e prolungare all’infinito il loro amore. Ciò che muove Leonardo Di Caprio – in questo film ancora una volta attore splendido - a staccarsi dolorosamente dalla sua amata è il bisogno lancinante di tornare a casa dai figli piccoli. E il malinteso tra il padre padrone dell’onnipotente multinazionale e il figlio erede è riassunto in una sola parola: disappunto, che il padre pronuncia riferendosi al figlio, che il figlio interpreta come giudizio negativo su se stesso, per la propria incapacità a diventare come il padre, e il padre invece, si scopre alla fine, intendeva riferire a un figlio inutilmente affannato nel cercare di essergli all’altezza: quando lui avrebbe preferito per il figlio la conquista di una propria autonoma e indipendente strada.
Dopo, alla pari e per certi versi forse perfino meglio di capolavori quali Blade Runner e Matrix, Inception è per le alchimie del linguaggio un film originale, forte e bello: peccato che il regista , o i produttori a caccia di target, l’abbiano reso prometeicamente troppo carico.
Il film di Nolan é infine uno splendido apologo su un’epoca, di cui siamo solo all’inizio, caratterizzata da sfide affascinanti ed emergenze terribili (scontro mortale per il dominio sui mercati mondiali, imperialismi e terrorismi, disponibilità di nuove tecnologie ultrapotenti, accaparramento di limitate e preziose risorse naturali, devastanti e sempre più frequenti disastri ambientali); sull’aprirsi e fidarsi (reception) a necessità di innesti (inception) in un lavoro di squadra in cui ci si gioca tutto: un nuovo inizio (conception) o uno sbocco fallimentare e disastroso (deception). Il gioco sta diventando sempre più difficile e duro. Tocca lavorare a ritmi sempre più infernali. E fidarsi senza garanzie, al buio.
Gian Carlo Marchesini