Porte aperte
di Gianni Amelio rivisto vent’anni dopo
L’altra sera ho rivisto in Tv il film Porte aperte di Gianni Amelio, con la figura del giudice protagonista superbamente interpretata da Gian Maria Volonté. Ho rivisto i vicoli, le piazze, i palazzi bellissimi e fatiscenti del centro storico di Palermo dove anch’io negli anni ’70 ho abitato e vissuto. Ho rivisto spiaggia e stabilimenti di Mondello dove trascorrevo le mie domeniche estive. Ho rivisto le campagne assolate e le fattorie di Salemi dove in autunno a casa di amici andavo a vendemmiare.
Nel film sono Gian Maria Volonté e Ennio Fantastichini ad affascinare per la potenza della loro interpretazione. Il primo, sobrio, scarno, essenziale e solenne nella sua sfida di un lavoro frutto di un continuo e tenace asciugare e levare, al punto da apparire quasi sospeso in una dimensione interiore troppo intensa e piena per poter essere comunicata; il secondo con l’occhio spiritato da cinghiale inferocito incapace di tenersi dentro il ribollire dell’inferno. L’uno asceta mistico nell’interpretare quasi preghiera il suo mestiere di giudice; l’altro luciferino nel rappresentare la parte di uomo umiliato e tradito e quindi inevitabilmente assassino.
E poi quel sottile e rivelatore discettare dei giudici tra ragioni del potere e ragioni del dovere, tra demagogia viscerale populista – a morte! a morte! – e l’etica schierata sempre, malgrado tutto, dalla parte della fiducia in un possibile riscatto, della speranza nella vita.
Poi c’è la figura sempre silenziosamente presente della bambina figlia del giudice, richiesta incarnata di affetto e protezione della parte più pura e fragile, e quella del giurato contadino saggio e riflessivo, lettore appassionato di Dostoievski, immerso nel tempo libero in una biblioteca di settemila volumi acquistata da un barone finito in rovina.
Gianni Amelio si conferma con Porte aperte rivisto vent’anni dopo un regista straordinario. Ti fa capire come la battaglia per la giustizia giusta, ai tempi del fascismo combattuta intorno alla liceità o meno della pena di morte, ai nostri giorni non ha affatto perso in attualità, anzi si è forse ancora più complicata e imbarbarita. E che l’ordine e la sicurezza non hanno nella retorica della repressione enfatizzata la loro via maestra, ma nella civiltà della coscienza morale del foro interiore e nel nutrimento dell’alta cultura.
E poi il film ci trasmette ancora intero il fascino e l’immedicabile assenza di un attore strepitoso come Gian Maria Volonté, un gigante rispetto al quale nel nostro cinema attuale – fatta eccezione per Toni Servillo – gironzolano solo ombre e nani.
Gian Carlo Marchesini