Una storia vera. Signore e signori: David Lynch

Il David Lynch (classe 1946) che io avevo finora conosciuto, mi era rimasto impresso specialmente per alcune immagini. Il rapporto morboso possessivo e ossessivo del personaggio interpretato da Dennis Hopper nei confronti di quello femminile interpretato da Isabella Rossellini in Velluto blu (1986), a raffigurare la dipendenza regressiva estrema approdata alle forme dell’annusamento asmatico compulsivo – come quello dei bambini di strada di Rio che, per stordirsi in una sensazione di ritorno al paradiso perduto, sniffano colla. Immagini cinematografiche che rendono potentemente il nucleo incandescente e buio dell’attaccamento non risolto in cui un adulto figlio bambino può restare, nei confronti della propria madre, intrappolato.

Poi il labirinto allucinatorio di film come Mulollhand Drive (2001) e Inland Empire (2006), altri meandri di relazioni interpersonali frutto di delirio ipnotico di un forse troppo potente acido lisergico. Ma anche di geniale capacità di introspezione psicologica profonda.

L’ho infine incontrato dal vivo, in una conferenza/seminario da lui tenuta all’Auditorium di Roma, in cui il grande regista – ma anche pittore e musicista – si è proposto sotto forma di apprendista guru della meditazione trascendentale, della saggezza e della interiore spirituale salvezza. Incontro e conferenza che, in verità, mi hanno lasciato non poco perplesso: avete presente i Testimoni di Geova, o gli Hare Krishna?

Personalità indubbiamente affascinante e complessa quella di David Lynch, problematica e sfaccettata, capace di mettere in scena e raccontare ossessioni psichiche contorte e torbide, come anche gli inaspettati approdi a verità catartiche.

Ieri sera mio figlio Roberto mi ha proposto in visione un suo film, Una storia vera, del 1999, che non avevo mai visto. Ne avevo letto all’uscita notizie e recensioni, ma qualcosa, le circostanze esterne o una interiore resistenza psicologica, mi avevano trattenuto dal vederlo. Ieri sera quindi, grazie alla iniziativa di mio figlio - orsù, bando agli indugi – ho colmato la lacuna.

La storia è presto detta. Un anziano 73enne, uomo qualunque che di nome fa Alvin, vive della sua pensione in una modesta casa con la cinquantenne figlia (vedova e madre a sua volta di quattro figli a lei sottratti per una sua manifesta, o tale ritenuta, incapacità di farsene carico e crescerli). Il vecchio protagonista è fisicamente acciaccato, e manifesta sintomi e segnali sempre più evidenti di difficoltà al cuore, alle anche, ai polmoni. Ha infatti un brutto inizio di enfisema polmonare, e cammina appoggiandosi a due bastoni. Il medico tenta di convincerlo a smettere di fumare, ma il nostro Alvin continua a spararsi voluttuosamente mastodontici e aromatici sigari cubani. Insomma, una problematica, normale, piuttosto tribolata vita di una persona che si inoltra verso la sua fine - quando, all’improvviso, arriva la telefonata che lo informa di un brutto infarto che ha colpito il fratello che vive 600 chilometri lontano, in un altro Stato, e con il quale il Nostro ha interrotto i rapporti da dieci anni – per ragioni che lui stesso definisce “un miscuglio di rabbia, alcol e stupidità”.

Con quel fratello è cresciuto bambino e poi ragazzo, con lui ha condiviso apprendistato e conoscenza, gioie e dolori della vita. Il vecchio decide che è giunto il momento di fare pace, e quindi deve assolutamente raggiungerlo. Solo che, per problemi alla vista, non può guidare, e per invincibile idiosincrasia non può prendere autobus o treni. Eccentrico, cocciuto e solitario com’è, Alvin fa appello alle sue ultime risorse ed energie, allestisce un piccolo caravan/rimorchio attaccato a una motofalciatrice che non richiede patente e, a cavallo di quello strano e fragoroso aggeggio, parte affrontando avventure e disavventure di un viaggio che dura, attraverso campagne e colline dello splendido profondo interno americano, diverse settimane.

Nel viaggio incontra persone – una giovane donna incinta in fuga da casa; un prete custode di un antico cimitero; diversi anziani solitari e acciaccati come lui - con i quali, magari bevendo una birra gelata al banco di un bar, o gustando una salsiccia cotta alla brace sotto le stelle, scambia e racconta pezzi intimi e dolorosi della sua vita. La storia raccontata da Lynch ha uno sviluppo lento quanto intenso, parte elegiaco parte drammatico, e si conclude a casa del fratello che, convalescente e mal ridotto, vive solo in una piccola e fatiscente casa in legno dentro un bosco. I due, senza troppe parole fanno pace, e l’immagine finale del film li coglie a contemplare insieme, come quando erano ragazzini – la sera tardi, seduti nel patio – il cielo stellato.

Ecco, tutto questo succintamente riassunto per dire che Una storia semplice di Lynch, rispetto a tutti i suoi altri, è film manifestamente in sintonia con l’approdo filosofico spirituale, di illuminazione appagata e saggia, al quale in evidenza Lynch è approdato. Raccontando cinematograficamente da maestro quale lui è e rimane, il regista chiaramente ci dice: guardate cari che siamo tutti, specialmente noi piuttosto anziani, persone acciaccate, ferite e doloranti. Siamo tutti già, o presto, destinati ad ammalarci e poi ad andarcene. Qualche arto, qualche parte del corpo, qualche sua tubatura o organo, prima o poi cede. C’è poco da dibattersi, pretendere di sottrarsi, inventarsi escamotage o trucchi, mettersi in faccia ceroni o ai piedi tacchi. C’è poco da rimpiangere o rinvangare e alimentare antiche rivalità, risentimenti e rancori. Pensiamo piuttosto a sanare le ferite, i vecchi debiti, a perdonare e riconciliarci. Siamo tutti, nella sostanza, più o meno soli, feriti e prima o poi sconfitti. Quantomeno, prima di andarcene e lasciare il posto a chi segue, sistemiamo positivamente conti e pendenze. E poi, fumandoci se ci va l’ultimo sigaro, o bevendo insieme una buona birra, o abbandonandoci all’ultimo e definitivo sprazzo di meditazione trascendentale, contempliamo insieme l’immensità sfavillante del cielo.

Oppure, come ha scelto di fare il grande Monicelli, spicchiamo coraggiosamente – a novantacinque anni! – dal quinto piano l’ultimo volo. Questi vecchi maghi non finiranno proprio mai, con i loro effetti speciali, di stupirci.

Gian Carlo Marchesini