The social network di David Finch
Per come regista e sceneggiatori mettono giù la storia, si direbbe che il fattore che ha determinato la spinta alla creatività nel mondo dell’informatica del giovane Mark Zuckerberg sia stato l’avere sofferto una forte frustrazione amorosa. Della serie: ah, così? Adesso gliela faccio vedere io! Facebook sarebbe quindi nato come risposta del ragazzo all’essere stato rifiutato, considerato da una ragazza indegno. Il film così inizia, e si conclude con una scena analoga anche se opposta: dopo avere superato mille ostacoli e avversari, Zuckerberg riconquista attenzione e interesse da parte di una giovane e bella donna avvocato che lo ha aiutato a vincerli. La donna come avvio e soluzione dei maschili problemi di affermazione/realizzazione? Anche lì, ancora una volta, cerchez la femme?
In verità il film racconta come negli anni trascorsi, negli Stati Uniti, un gruppo di adolescenti, cavalcando il motore turbo delle tecnologie della comunicazione, del computer e di internet, abbia inventato Google e Facebook e conquistato così in pochi anni una fama e una fortuna che in passato poteva essere accumulata soltanto nel corso di più generazioni.
Il film è pieno di ragazze carucce e disponibili, ma solo per il piacere sessuale capriccioso e bulimico dei nostri eroi. Sembrerebbe quindi un film volgarmente sessista, visto che i veri pimpanti e ruggenti protagonisti sono una decina di giovani maschi. Però non è poi così vero: tutto si mette in moto grazie alla personalità forte e determinata di una ragazza, e tutto riprende e si ricompone in forma stabile e equilibrata sempre grazie all’azione decisiva di un’altra forte e capace ragazza. Il film non è quindi così sessista.
Il film spiega bene come la potenza vorticosa delle innovazioni e della creatività possa generarsi e svilupparsi solo là dove è concentrata la massa critica necessaria a far esplodere il big bang: e cioè il mondo delle università e dei laboratori di ricerca più avanzata. Harvard nel Massachussets, Stanford, a Palo Alto in California, Oxford e Cambridge a Londra e, a far da detonatore, gli esperti e spericolati investitori newyorchesi dell’alta finanza, ecc.
Il ritmo del racconto è dinamico, incalzante, adrenalinico, al punto che le battute efficaci e brillanti, sparate a raffica, spesso non si riesce a registrarle e capirle bene tutte. Ed è un peccato, perché i dialoghi sono taglienti, scoppiettanti e divertenti. Poi mio figlio mi ha segnalato che questo può essere dipeso dal pessimo impianto di amplificazione del cinema dove sono stato, perché lui, in un altro cinema, ha seguito e capito perfettamente tutto. O forse sarò, per l’età ,un po’ ritardato e impedito io.
Nel film Mark Zuckerberg viene presentato come in stato perenne di concentrato e assente sonnambulismo: sembra distratto, indugia e tergiversa, ma la sua battuta è rara ma lestissima, fulmina l’interlocutore dritta allo scopo che fa il paio con la facilità nell’individuare l’algoritmo giusto. Il ragazzo talentuoso incarna il classico scienziato perso tra le nuvole: solo che ha vent’anni, e questo lo rende tenero e triste allo stesso tempo, fuori dal tempo, o troppo dentro il suo tempo, comunque, rispetto agli altri, anzitempo.
Intorno ci sono la pletora di ammiratori adoranti, i gelosi invidiosi, quelli che lo vogliono sfruttare e gli altri che non lo sopportano e lo vogliono solo distruggere. Lui apre gli occhi e smette di picchiare i tasti del computer solo in presenza della sua bella. Ma quella picchia lui e lo rifiuta con un sadismo e una intransigenza degna di migliore causa. Ma con un miracolo di trasformazione alchemica il nostro genio trasforma i ceffoni in motivazione aggiuntiva ed energia a vantaggio delle sue mirabolanti invenzioni. Il che fa sospettare che a essere troppo amati e coccolati nella vita si rischia come minimo di non diventare celebri e miliardari. E che se non ci si trova nel posto giusto al momento giusto si perde della storia il treno.
Gian Carlo Marchesini