La maman et la putain

I protagonisti del film sono tre giovani 25-30enni, nella Parigi di Saint Germain des Près del 1973, cinque anni dopo il Maggio ’68. Lui, Alexandre (Jean Pierre Léaud), dandy filosofeggiante, amante mantenuto e ospite in casa di una lei, Marie, proprietaria di una boutique; e l’altra, Veronika, bionda infermiera di origine polacca, di relazioni sociali piuttosto volubili e promiscue, irretita, sedotta e alla fine messa incinta da lui.  Potrebbe essere la trama di una banale commedia un po’spregiudicata e osée. Nelle mani del regista Jean Eustache, il film diventa un corpo a corpo a tre: esistenziale e filosofico, politico ed erotico, potente, tormentato e spudoratamente esplicito. La cinepresa, a immagine praticamente fissa, riprende frontalmente monologhi e dialoghi dei protagonisti in un interno di minuscoli appartamenti, o dentro e fuori qualcuno dei bar più famosi per gli incontri del milieu artistico-intellettuale parigino (Deux Magots, Flore), o su una panchina del lungo Senna. Questi sono i materiali, semplici ed essenziali, che costituiscono il laboratorio di testimonianza e confessione sulla vita in diretta, rappresentata e raccontata in 3 ore e 28 minuti praticamente senza interruzioni  o soluzione di continuità, di tre testimoni  della grande ondata di movimento e sommovimento rivoluzionario allora da poco dissolta e rientrata. E’ un po’ come se Eustache si fosse detto: qui è appena successo un ’68, il consueto paesaggio della quotidiana normalità parigina è stato investito e scosso da un’alta marea politica, sociale e culturale di una intensità ed energia strepitose. Guai a me se non mi ficco dentro e in mezzo, piazzo la mia cinepresa, accendo microfoni e riflettori, e non raccolgo e registro con il massimo di lucidità e partecipazione la voce, le emozioni e i sentimenti dei protagonisti. Già le acque si stanno ritirando, l’acme dei loro effetti va scemando, se non lo faccio io questo lavoro di registrazione a cuore aperto e visceri spalancati, chi altri e quando mai? Detto e fatto.

Nel film non ci sono grandi sviluppi o colpi di scena, giravolte inaspettate o deus ex machina che scendono a insufflare soluzioni dal cielo. Di suo, dall’esterno, il regista ci mette ben poco o quasi nulla, e questo è il colpo di genio. Anche se, naturalmente, il regista è il suo film, è tutto presente nelle vibrazioni sapienti dei suoi attori. Ma sullo schermo la vita dei tre scorre semplice, naturale e necessaria come accade alla vita quando essa agisce nella sua pienezza intera. Ed è un ininterrotto miracoloso flusso di coscienza affidato alle parole e ai volti intensamente espressivi degli umanissimi protagonisti. I quali si muovono, si guardano, si esprimono e raccontano, si desiderano e si amano e detestano, con la forza e la verità, con la indipendenza e la libertà che soltanto una marea presente e inarginabile come quella sessantottina poteva smuovere e suscitare. Ma, allo stesso tempo, i tre si propongono come esseri umani astorici e universalmente validi. Quando lui e le due lei interagiscono – interloquendo, cercandosi, inseguendosi o scappando – sono vivi nel manifestare quel che provano e sentono, con una intensità e verità che è esattamente quella che costituiva sostanza ed essenza di quegli anni, di quelle vite in quei momenti. Ovviamente non nel senso che allora le condizioni e le situazioni erano tutte pienamente risolte e positive, appaganti e felici, ma che venivano affrontate e vissute, manifestate e comunicate, con una forza, una intensità, una volontà di andarci fino in fondo e venirne a capo che prima così non era e dopo non è più stato, e che noi oggi, rispetto a quello che nel bene e nel male succedeva allora - in uno stato volta a volta di panico e furore, di ebbrezza e grazia, e pure di angoscia disperata - sembriamo delle imbolsite larve postume. Certo, non si può perennemente vivere in una condizione di stato di ebbrezza e grazia, rischieremmo la rapida consunzione, o l’esplosione e l’infarto. E infatti, nei dialoghi dei tre e dei loro amici, già cominciano a circolare notizie di chi si è suicidato, di chi ha ucciso ed è scomparso. Ma quel che si può dire e va detto è che, pur nella dissipazione anche compulsiva e caotica (i protagonisti del film hanno perennemente in una mano un bicchiere, nell’altra una sigaretta) così effettivamente era la vita allora, nel senso che la parola d’ordine elettrizzante e generale era quella di dare corso e via libera a ciò che si sentiva e si provava, a ciò che si desiderava – cioè a ciò che si era. Certo, si dicevano e facevano anche un sacco di cazzate, ma nella valanga a getto continuo di sabbia c’erano pepite d’oro, e la percezione diffusa, almeno dentro la generazione dei 20/30enni di allora, era quella di vivere un momento straordinario, la vita liberava se stessa da secoli di nascondimento, latitanza coatta, rimozione e insensatezza, e finalmente poteva sgorgare e scorrere, innalzarsi e svettare – ovviamente portandosi appresso fango e detriti in abbondanza. Ma vivaddio, avete presente il movimento di fuoriuscita di un bambino dalla vagina di una donna? Lì c’è un mare di sangue, piscio e merda, ma dentro e in mezzo c’è il meglio di una  palpitante vita. 

A proposto di bambini, devo segnalare un passaggio del film, per me uno dei più forti e commoventi, quello in cui, sciolta in singhiozzi e lacrime arrese, Veronika, una delle protagoniste, parla di sé, confessa il suo amore per Alexandre e Marie, per ciascuno e tutt’e due insieme, e piangendo e singhiozzando dice cose inaspettate e importanti sul sesso e sull’amore. Inaspettate perché non esalta – come da falsa vulgata post sessantottina – i magnifici e assoluti piaceri del libero sesso. Grida anzi che il sesso può anche essere puro esercizio egoistico e narcisistico, gioco di potere brutale e sterile, e che lei non ne può più di questa falsificazione e mistificazione squallida e volgare. Perché il sesso - sostiene sempre Veronika piangendo e gridando con un effetto strepitoso di verità e immedesimazione che basterebbe questo a rendere il film immortale – ha senso e valore solo tra persone che si amano, e che mentre se lo godono, lo immaginano e intendono anche come leva necessaria per generare una nuova vita: un bambino che sia incarnazione e risultato del loro amore. E che non c’è niente di più triste e squallido di una coppia che scopa – al suo interno e all’esterno, saltabeccando qua e là  - e che per mantenersi più libera, agibile e disponibile, rinuncia a fare figli.

Ora, malgrado io non possa non cogliere la curiosa e un po’ inquietante vicinanza, su questo tema non così marginale, tra punto di vista sessantottino e punto di vista della tradizione di santa romana chiesa, pur tuttavia non posso non accoglierlo con ammirazione e rispetto. Perché è vero che il piacere del sesso è in sé buono e positivo, ed è anche veicolo tra i più efficaci per la conoscenza di sé e delle persone con cui lo si gode, ma se piegato e trattenuto soltanto all’interno di questo esclusivo cerchio immanente e immediato rischia di essere avulso e separato da quella – la nascita di una nuova vita umana - che, se non finalità unica, è sicuramente finalità fondamentale. Insomma, Jean Eustache, attraverso il monologo formidabile e toccante di Veronika, ci ricorda che il ’68 non era generoso soltanto nei confronti dei suoi protagonisti e tra di loro, ma perseguiva insieme anche un orizzonte di pienezza generosa nei confronti della vita nuova. Godersi il sesso da parte di una ragazza giovane e bella, non significava o implicava che quella ragazza fosse una puttana. “Io desidero continuamente fare l’amore, e con molti uomini - confessa Veronika - ma rifiuto per questo di essere considerata e trattata come una puttana. Puttana è quella moglie che gioca due parti e due ruoli: virtuosa e fedele in pubblico e agli occhi del marito, e amante di nascosto di qualcun altro. E’ la dissociazione ipocrita di una donna, o di un uomo, a fare di lei una puttana, di lui un bastardo. Io desidero ardentemente incontrare un uomo che mi desideri, voglia fare l’amore con me, e mentre lo fa gioiosamente speri ardentemente che io rimanga incinta per avere da me e con me un bambino che ci assomigli, che ci confermi e superi”.

Insomma, Jean Eustache racconta in tre ore e mezza il suo Sessantotto. E dice che per lui il sessantotto è sostanzialmente rappresentato da una immagine simbolica e potente: dal fatto cioè che la donna smetta di essere socialmente, culturalmente, moralmente e psicologicamente giocata in due dimensioni tra loro dissociate, o la mamma o la puttana; perché la mamma è una donna che ama tutti i piaceri, anche quelli del sesso, con il suo uomo o anche, se condiviso, in modo diverso e promiscuo. Mentre la cosiddetta puttana è una donna che, pur amando fortemente i piaceri del sesso con chi si offre e corrisponde, desidera sopra ogni altra cosa incontrare un uomo da amare e che la ami al punto da farla diventare anche una mamma appagata e felice.

Insomma, il ’68, secondo il punto di vista di Jean Eustache, che personalmente condivido, è stato un movimento giovanile e sociale di lotta e auto terapia individuale e collettiva da parte di un persone che hanno allora deciso fosse il momento di provare a mettere in radicale discussione un assetto sociale mummificato di dissociazione e oppressione ipocrita, di separatezza innaturale e rigida, di scissione infelice e malata: in tutti gli ambiti, quello intra e interpersonale, quello dei rapporti di coppia e intra famigliare, quello sociale e del lavoro, quello della scuola e della cultura, quello politico e istituzionale. E a smuoverlo è stata sostanzialmente una domanda: già di nostro siamo fragili e precari, destinati a interrompere l’esistenza fin troppo presto. Perché mai dovremmo accettare di infliggerci  ulteriori catene, ferite e sofferenze?

Una osservazione particolare merita, nel film, Jean Pierre Léaud.  Così come Léaud era Truffaut (ricordate I 400 colpi?), Léaud è pure e pienamente Jean Eustache – e di una meravigliosa congiunta efficacia.  Basterebbero gli occhi liquidi e lo sguardo famelico e febbricitante di Léaud, tenero e smarrito cucciolo abbaiante, per esprimere intero lo tsunami di ribellione verso il gravame intollerabile di una società immobile, la invocazione urlante di una vita vera e nuova che è stato il ’68.

Va infine detto che il film è rigorosamente in bianco e nero, la colonna sonora è scandita dalle canzoni struggenti di Edith Piaf e Marlene Dietrich, e da qualche brano del Requiem di Mozart.

E infine una semplice annotazione di pura logistica. La maman et la putain è stato proiettato due volte, a Roma, all’inizio e alla fine della settimana in cui a Villa Medici, grazie ai buoni uffici delle istituzioni culturali francesi, è stata proposta l’intera opera di Jean Eustache (il regista, è il caso di ricordarlo, si è tolto la vita nel 1981). Io e altri abbiamo provato a entrare, ma i 100 posti a sedere erano ogni volta esauriti. Ho scoperto che il film non è neanche in commercio, non si può quindi né acquistare né noleggiare. Come sono riuscito a goderne la visione? Banale e insieme gratuito, nonché geniale. L’ho semplicemente scaricato da Internet. Come dice anche il buon Ratzinger, (anche se non mi pare si tratti di un ex sessantottino), che sia sempre benedetto (Internet, ovviamente).

P.S.  Mi viene in extremis da associare, per via del richiamarsi reciproco di alcune tematiche,  La maman et la putain a Viaggio alla fine del Millennio di Abraham Jeshua, libro bello e sontuoso. Nel libro, uno dei temi affrontati, anzi forse quello centrale, è il confronto tra primato ed esclusività rivendicata del rapporto coniugale rigidamente monogamo, o piuttosto, e a quello contrapposta, la bellezza, ricchezza e validità della bigamia.  Lo scrittore israeliano, pur ambientando le vicende narrate alla fine del primo millennio, fa capire interamente fascino e ragioni dell’amore  accettato, condiviso e simultaneo nei confronti di più donne, ma dà anche rappresentazione e atto delle resistenze, delle ostilità e del vero e proprio accanito rifiuto che tale modello può in altri paesi e culture ingenerare. A dire il vero, Jeshua si spinge anche più in là, descrivendo con sapienza e malizia l’energia vitale sprigionata dal ragazzo nero che sulla nave ricopre il ruolo di mozzo e servo di tutti e di ciascuno, connotandola di un appeal sessuale di cui si scoprirà tutti i maschi adulti essere più o meno soggetti, e qualcuno, si scoprirà, gode e fruisce concretamente. Anche in La maman et la putain, nello spirito sessantottino di smascheramento di codici, parti e ruoli sessuali, a un certo punto le due ragazze si prendono amabilmente gioco del loro giovane uomo, lo truccano e imbellettano, e infine, apprezzando il risultato estetico, gli raccomandano di rendersi un po’ più disponibile. Cambiare parte in scena e prenderlo in quel posto non avrebbe potuto che fargli umanamente un gran bene.