La sposa siriana

Anche La sposa siriana, che ha cronologicamente preceduto Il giardino di limoni, opere entrambe del regista israeliano Kiklis, mette in scena vicende ambientate in contesti umani dagli intrecci così complessi e complicati che prima o poi, in assenza di mediazioni fondate su maggior comprensione, accettazione, integrazione, tendono inesorabilmente a tradursi in conflitto acuto se non proprio ad esplodere in guerra conclamata. Dislivelli di condizioni economiche e di reddito abissali, differenze di natura culturale e religiosa, modelli di comportamento troppo dissimili e lontani, tutto contribuisce al sospetto, alla sfiducia, al rifiuto e al fraintendimento. A meno che…   

Anche l’attrice protagonista è la stessa nei due film, sia pure ne La sposa siriana di qualche anno più giovane. Sguardo e sensibilità si confermano quindi nettamente al femminile. E questo, per un regista israeliano che sceglie di raccontare una storia che ha per protagoniste persone appartenenti a un popolo che non è il suo, è inaspettato, originale e sicuramente apprezzabile. Se casi simili si moltiplicassero… 

Dentro la rete onnipresente e oppressiva dei ruoli di potere maschili, la gran parte declinati in modo esplicitamente violento e oppressivo, nella storia raccontata dal film alle fortificazioni bellicose e chiuse degli uomini sono le donne a opporsi, a resistere e a reagire con tenacia e pazienza infinite. Certo, al nostro sguardo di occidentali (più o meno) evoluti produce sconcerto assistere alle vicende di una giovane palestinese della Cisgiordania che, ai nostri giorni, viene dai genitori data in promessa sposa a un giovane siriano che incontra per la prima volta il giorno di un matrimonio, il cui compimento è per di più grottescamente sabotato, al passaggio di frontiera tra alture del Golan e Siria, dall’ottusità dei burocrati delle due parti. E il film, di una mancanza di libertà e arretratezza nella mentalità, nei costumi e nella disponibilità di spazi sociali che colpisce principalmente le donne, dà una testimonianza esemplare. Situazioni e condizioni simili – di patriarcato e di così pesante oppressione del femminile - erano presenti dalle nostre parti forse qualche secolo fa. 

Poi si esce dalla sala di proiezione e si è indotti a riflettere su quanti sono ancora i paesi a dominanza religiosa e culturale islamica che sottopongono le bambine a pratiche ben più atroci, come quella delle mutilazioni sessuali. D’altra parte, tenute ben presenti le differenze, lo stesso sistematico ricorso nel nostro mondo occidentale all’utilizzo del corpo femminile come veicolo per la promozione delle merci, non è forma di umiliazione e sfruttamento della bellezza, della dignità, della libertà femminile? E sia il nascondimento mortificante imposto dal burqa che l’esibizionismo spudorato delle nostrane veline televisive, non segnalano in forme diverse quanto in ritardo siano, sulla strada di una reale conquista di libertà e dignità femminile, società e culture per altri aspetti pur così diverse?   

Comunque sia, lode al regista israeliano Kiklis per il contributo in chiave di sensibilità e conoscenza solidale ed empatica che grazie ai suoi film ci regala. La sua capacità di immedesimazione e rispetto per stili di vita, mentalità e scelte di comportamento diversi dai suoi e dai nostri, suggerisce esempio di approccio e chiave di lettura validi per tutti. Se riconoscessimo e condividessimo di più i comuni e universali bisogni di base, e non ci facessimo irretire e irritare così tanto dalla varietà e dissomiglianza delle forme contingenti in cui essi si manifestano…

Gian Carlo Marchesini