Appunti di filosofia dell'arte
I MISTERI DI BOSCH, PITTORE FILOSOFO
31 dicembre 2009 Chiara Santagada
“Chi pensa sia necessario filosofare deve filosofare e chi pensa non si debba filosofare deve filosofare per dimostrare che non si deve filosofare; dunque si deve filosofare in ogni caso o andarsene di qui, dando l'addio alla vita, poiché tutte le altre cose sembrano essere solo chiacchiere e vaniloqui”(Aristotele). La filosofia non è solo quella che si insegna nelle scuole superiori e nelle Università. Lì si parla di Storia della Filosofia: un’altra materia, in fondo. Essere filosofi non significa soltanto inventare sistemi di pensiero o scrivere libri che illustrino (giustifichino razionalmente) tali posizioni. Se il primo uomo che si pose domande su se stesso e sul proprio ruolo nel creato può essere visto come lo scopritore (non l’inventore) della filosofia, allora tutti noi siamo filosofi da sempre, perché la filosofia è l’attitudine tipicamente umana a porsi domande universali per trovare risposte a quesiti particolari. In questo senso la filosofia non è tanto una disciplina quanto un istinto naturale, che all’alba della storia umana era accettato come normale e che solo con il tempo si è separato dalle altre forme di conoscenza, fino ad arrivare alla situazione attuale in cui la superspecializzazione ha condotto alle forme schizoidi del sapere che purtroppo ben conosciamo. Penso che si possa chiamare “istintiva o naturale” questa filosofia per così dire filogenetica, mentre la filosofia come viene oggi comunemente intesa è una specie di riserva indiana, un’enclave di cui nessuno capisce bene la funzione e l’utilità. La vera filosofia, che è letteralmente “amore per la saggezza/sapienza”, ha imparato a nascondersi, per non essere accusata di elitarismo e di eccentricità, per non essere sospettata di voler manipolare gli altri e di ideologizzare sterilmente la vita vera, mentre al contrario la filosofia vera è la premessa necessaria a tutte le ideologie, a tutte le scienze, addirittura a tutti gli atti della vita quotidiana. Una prova indiretta è costituita dal proliferare delle Filosofie ufficiali: accanto alle branche classiche (Logica, Epistemologia, Metafisica, Ontologia, Etica, Estetica, Teoretica) compaiono oggi sempre più numerosi i settori alternativitra cui ricordiamo la Filosofia della Scienza, della Fisica, della Biologia, della Matematica, del Linguaggio, della Letteratura, della Mente, della Psicologia, della Storia, della Tecnologia, dell’Informatica, del Diritto, della Bioetica, della Religione, delle Scienze Sociali, della Politica, dell’Economia, della Pedagogia, dell’Educazione, della Musica, del Cinema, dell’Arte. A proposito di quest’ultima va detto preliminarmente che gli addetti ai lavori non si sono ancora messi d’accordo su cosa sia esattamente. “Per molti tale disciplina si identifica sostanzialmente con l'estetica”, ma altri negano “l'identità tra le due discipline, sostenendo che l'arte riguarda non solo l'estetica ma anche il fare umano (ciò che in greco è techne). In quest'ottica bisogna affrontare la comprensione dell'opera d'arte in quanto oggetto della prassi, compito che non attiene all'estetica e coinvolge anche aspetti cognitivi (1)”. In effetti la storia dell’arte abbonda di pittori filosofi. A ben vedere dietro ai dipinti di tutti i grandi si celano – e si rivelano – le loro filosofie, mutevoli e cangianti, talora contraddittorie, talora provenienti da precise scuole di pensiero, talaltra frutto di quella filosofia naturale di cui si diecva, propria dell’uomo fin da quando ha cominciato a prendere le distanze dal bruto che porta in sé. Quasi sempre si è trattato di una filosofia nascosta: o perché inconscia (si pensi alla prospettiva nell’arte egizia) o perché proibita (e qui gli esempi potrebbero farsi innumerevoli) e perciò pericolosa. Cercherò di dimostrare che quest’ultimo è anche il caso di Hieronymus Bosch: non si può presumere di riuscire a comprenderlo, decrittando i suoi misteri, senza tener conto del suo pensiero, cioè della filosofia che egli scelse di esprimere attraverso l’agire pittorico. Bosch godette di uno straordinario successo presso i suoi contemporanei: comprendessero o meno la carica eversiva delle sue rappresentazioni, principi, re, prelati e ricchi borghesi accettarono e ammirarono la sua esasperata Weltanschauung, segno evidente che, del tutto o in parte, magari inconsciamente la condividevano. A stupirsi furono piuttosto i posteri, i cui pareri – come sempre accade nei confronti di simili giganti - spesso risultarono pesantemente influenzati dall’orientamento personale e dall’epoca degli esegeti. Per quanto tali interpretazioni possano apparire poco oggettive o condivisibili solo nel contesto di uno sguardo integrale alla produzione boschiana, si tratta pur sempre di contributi di cui bisognerà tenere conto. Infatti i misteri di Bosch sono numerosissimi e il loro insieme rende talvolta quasi illeggibile la sua opera, pur sempre godibile da tutti per l’accuratezza compositiva, la perizia del disegno, la brillantezza del colore e così via. Quali sensazioni prova davanti alle opere di Bosch un fruitore “innocente”? Chi riesce a superare l’impatto del primo incontro con lui (che va dall’entusiasmo al rifiuto o addirittura all’indifferenza) si è portati inevitabilmente a tentare di analizzarne i dipinti in base a tematiche filosofiche portanti. Da parte mia ne ho individuate due: “L’Umanità Folle” e “La redenzione Impossibile”. BOSCH DISPERATO CANTORE DELL’UMANITÀ FOLLE Jeroen Anthoniszoon van Aken, in arte Hieronymus Bosch (1450 –1516), nacque a 'sHertogenbosch, nei Paesi Bassi, da una famiglia di pittori di origine tedesca. Della sua vita non si sa molto, il che invita a ritenere che fosse relativamente povera di eventi esteriori. E’ noto che si sposò prima dei trent’anni con la figlia di un ricco borghese ed è lecito sospettare che per l’artista non si sia trattato proprio di un matrimonio d’amore: di fatto la moglie non solo gli portò una ricca dote, ma gli permise anche di entrare nella jet society dell’epoca, con tutte le implicazioni positive e negative che la cosa comportava. Per esempio, la famiglia della sposa apparteneva alla Confraternita di Nostra Signora, che non era l’unica operante all’epoca nella zona (2): “Vi si trovavano, fra l'altro, due scuole aperte dai cosiddetti Fratelli della Vita Comune, una specie di congregazione che ebbe un vigoroso sviluppo nel Quattrocento e che spinse la Confraternita di Nostra Signora, alla quale apparteneva Bosch, a integrare il culto della Madonna (per il quale era nata) con una minuta attività caritatevole, che ne divenne un impegno privilegiato. In una di queste due scuole degli Hieronimiti (è questo il nome che ebbero a 'sHertogenbosch i Fratelli della Vita Comune), passò tre anni della propria esistenza Erasmo da Rotterdam, che vi entrò diciassettenne. L'appartenenza di Bosch alla Confraternita di Nostra Signora può essere più chiarificante di quanto non pensino alcuni specialisti, anche per i legami che la confraternita ebbe con i Fratelli della Vita Comune, sorti dalla predicazione appassionata di Jan van Ruysbroek, mistico del Trecento, e dall'opera del suo discepolo Geert (o Gerhart) Groote. Non per nulla questi ultimi cercavano di diffondere un nuovo spirito religioso che, mentre da un lato si impegnava contro le sette eretiche, dall'altro si batteva contro la corruzione del clero e auspicava una più profonda unione con Dio, fuori della Chiesa ufficiale e di quelle strutture ecclesiastiche inquinate dalla presenza di uomini corrotti e inetti. Se si pensa che il van Ruysbroek aveva attaccato fino dal 1330 l'eresia clandestina degli Adamiti (3) (credenti nella Restaurazione universale e nel Libero Spirito), apparirà molto improbabile che Bosch, in talune composizioni, abbia espresso idee connesse con questa eresia, peraltro sicuramente presente a 'sHertogenbosch. Stranamente, la Confraternita di Nostra Signora, a cui apparteneva Bosch, aveva per insegna un cigno bianco, e i suoi membri erano chiamati anche i "Fratelli del cigno". Un banchetto, detto "del Cigno", veniva imbandito annualmente come cerimonia rituale, e in quello del 1498-1499 il cigno fu offerto da Bosch. È chiaro perciò che, quando nelle opere del pittore compare un'insegna col cigno, il riferimento alla confraternita è più che probabile. Tuttavia, nel caso del Figliuol Prodigo (sempre che si tratti veramente di un cigno) egli non sembra molto rispettoso della confraternita stessa: nel caso specifico, infatti, l'insegna distingue una casa di malaffare. È possibile un accostamento del genere? A meno di un risentimento maniacale nei riguardi della confraternita, è preferibile pensare che l'animale nell'insegna della casa sia in realtà un'oca (4)”. Anche se risultano scarsissimi i dati sulle opere di Bosch – di molte si ignorano gli anni di composizione e i nomi dei committenti, senza contare che alcuni trittici sono andati frazionati, dispersi e in parte perduti – ci rimangono abbastanza originali da comprendere che il percorso di avvicinamento al senso della pittura di Bosch deve necessariamente avvenire per gradi. Ammesso che si superi il primo traumatizzante incontro con quest’arte unica nel suo genere, ci si rende conto che è assurdo tentare di raggiungere direttamente il nucleo del pensiero di Bosch, ossia la sua visione del mondo o filosofia: troppo abbondante di dettagli anche minutissimi, troppo ricco di temi, echi, allusioni, simboli di ogni genere. Credo convenga accontentarsi all’inizio di enucleare le vie che ad una prima riflessione appaiono più promettenti, procedere poi con l’analisi delle opere che sembrano rientrare in tali filoni e quindi, verso la fine, tentare una sintesi ipotetica come via verso l’affondo finale.
Uno dei temi cardine di tutta l’opera di Bosch è indubbiamente l’umana follia, anche se soltanto tre dipinti ne trattano esplicitamente: l’Estrazione della Pietra (1475 – 80), la Nave dei Folli (1490 – 1500) e il Concerto nell’Uovo (5). Tuttavia l’argomento serpeggia in tutto il lavoro del Maestro ed è indispensabile occuparsene il più addentro possibile se si desidera afferrare il suo messaggio complessivo. Bisogna tenere presente che il tema in sé non era una invenzione di Jeroen, tutt’altro. Nel caso dell’Estrazione della Pietra, per esempio, si è pensato ad una “ipotetica procedura che, nel XV secolo, avrebbe implicato la trapanazione del cranio al fine di estrarne il sasso che si riteneva responsabile della malattia mentale di cui soffriva il paziente (6)”. In effetti il dipinto mostra un “chirurgo intento all'estrazione, che indossa un copricapo a forma di imbuto simbolo di stupidità, qui usato come pesante critica mossa contro chi crede di sapere ma che, alla fine, è più ignorante di colui che deve curare (…) L'iscrizione in alto e in basso recita: Meester snijt die keye ras, Myne name is lubbert das cioè: «Maestro, cava fuori la pietra» e «Il mio nome è sempliciotto»" (7). In quanto alla Nave dei Folli va detto che all’epoca in cui Bosch la dipinse circolava per l’Europa il testo satirico (8) Stultifera Navis (9) di Sebastian Brant, con illustrazioni di Albrecht Dürer. Lo scritto risultava composto da oltre cento brevi satire in cui venivano messi alla berlina i costumi viziosi dei preti cattolici (10). Nel suo dipinto, però, Bosch accentua in modo molto originale l’intrattenimento musicale cui i passeggeri si dedicano, evidentemente ignari della situazione drammatica in cui si trovano o ad essa indifferenti. Nel Sito galileo. siena. it leggiamo: “Tra il 400 e il 500 approda nell’immaginario europeo un nuovo oggetto, strano e sconvolgente, oltre che affascinante: è la nave dei folli, una nave carica di pazzi, spinta alla deriva lungo i fiumi dell’Europa del Nord. Il tema esplode contemporaneamente nella letteratura come nell’arte. Sebastian Brant lo riprende nel suo Vascello dei Matti, un poemetto che denuncia tutte le condizioni sociali; ogni vizio è impersonato da un folle incurabile; nessuno manca a bordo della nave: sfilano così i rappresentanti della cultura e del potere, della vita civile, politica, religiosa, tutti rapiti ed invasati in questa vorticosa e convulsa navigazione verso l’inferno.” In più, nella Nave di Bosch è presente il pesante atto d’accusa nei confronti della musica che si ritrova nell’analogo Concerto nell’Uovo (e nell’Inferno Musicale del Giardino delle Delizie). Questa è di un’opera particolarmente enigmatica, che va letta alla luce dello sterminato simbolismo dell’uovo cosmico e alchemico e che da sola richiederebbe una trattazione ben più ampia del presente scritto, sempre che si possedesse l’originale uscito dalle mani del Maestro. Il tema della follia non si esaurisce qui, come si diceva. Prima di vederne le trattazioni boschiane indirette, che sono forse le più intriganti, sarà meglio esaminare alcuni altri elementi che ci aiutano a contestualizzare maggiormente l’universo boschiano. Il primo è un evento che appartiene alla storia della grande cultura: la pubblicazione nel 1511 dell’Elogio della Follia - Μωρίας Εγκώμιον (Morias Enkomion) in greco, Stultitiae Laus in latino, di Erasmo da Rotterdam, nome latinizzato dell’olandese Geert Geertsz. L’opera, considerata “uno dei lavori letterari più influenti della civiltà occidentale e un catalizzatore della Riforma protestante (11), inizia con un elogio in forma satirica (12) alla maniera del greco Luciano, i cui lavori erano stati recentemente tradotti da Erasmo e Tommaso Moro in latino (…) e acquisisce un tono più scuro in una serie di orazioni, quando la Follia predica di auto-ingannarsi e a diventare matti e muove verso un esame critico dei pii ma superstiziosi abusi della dottrina cattolica e di alcune pratiche corrotte della Chiesa romana - alla quale per altro Erasmo era stato sempre fedele - e la follia dei maestri, incluso Erasmo (…) Il saggio finisce con una schietta e commovente dichiarazione sui veri ideali cristiani”. L’Elogio ebbe uno straordinario successo, che stupì e forse spaventò lo stesso autore e conobbe una impressionante serie di imitazioni. Il segno dei tempi è chiaro, soprattutto se si pensa che Ludovico Ariosto (1474-1533) visse nei medesimi anni e parlò, nel suo tipico stile sorridente, dello stesso argomento nel grande poema dedicato appunto alla follia dell’eroe Orlando. Il Poeta, com’è noto, ha intessuto l’argomento principale con altri mille, dedicandogli però dettagliatamente tre Canti: il XXIII, il XXXIV e il XXXIX. Nel XXIII sono narrate le circostanze che hanno portato Orlando a perdere completamente la ragione (per amore, naturalmente); nel XXXIX il Paladino riacquista il senno e riprende a combattere per l’armata cristiana. Per la presente Nota però il Canto decisivo è il XXXIV: accompagnato dall’apostolo Giovanni, Astolfo, cugino di Orlando, per mezzo di un carro volante sale sulla Luna, in una delle cui valli si raccoglie tutto ciò che viene smarrito sulla Terra: “ “Da l'apostolo santo fu condutto / in un vallon fra due montagne istretto, / ove mirabilmente era ridutto / ciò che si perde o per nostro diffetto, / o per colpa di tempo o di Fortuna: / ciò che si perde qui, là si raguna. / / Non pur di regni o di ricchezze parlo, / in che la ruota instabile lavora; / ma di quel ch'in poter di tor, di darlo / non ha Fortuna, intender voglio ancora. / Molta fama è là su, che, come tarlo, / il tempo al lungo andar qua giù divora: / là su infiniti prieghi e voti stanno, / che da noi peccatori a Dio si fanno. / / Le lacrime e i sospiri degli amanti, / l'inutil tempo che si perde a giuoco, / e l'ozio lungo d'uomini ignoranti, / vani disegni che non han mai loco, / i vani desideri sono tanti, / che la più parte ingombran di quel loco: / ciò che in somma qua giù perdesti mai, là su salendo ritrovar potrai.” Passando il mezzo a tanto ben di Dio, Astolfo giunge al punto specifico in cui si raccoglie il senno smarrito dagli esseri umani: “Poi giunse a quel che par sì averlo a nui, / che mai per esso a Dio voti non ferse; / io dico il senno: e n'era quivi un monte, solo assai più che l'altre cose conte. / / Era come un liquor suttile e molle, / atto a esalar, se non si tien ben chiuso; / e si vedea raccolto in varie ampolle, / qual più, qual men capace, atte a quell'uso. / Quella è maggior di tutte, in che del folle / signor d'Anglante era il gran senno infuso; / e fu da l'altre conosciuta, quando / avea scritto di fuor: Senno d'Orlando.” Si può ben dire, a questo punto, che la follia era veramente popolare all’epoca di Bosch, anche se è giusto sottolineare che il Rinascimento si limitò ad affrontare coscientemente il tema della follia celebrata, che in realtà però era stato presente nella cultura europea da tempo immemorabile. “Semel in anno licet insanire”, dicevano i Romani a proposito del loro Carnevale, le lunghe feste solstiziali dei Saturnalia. La tradizione non si interruppe mai del tutto e nel Medioevo riprese vigore. Corinna Angelucci, sul Sito Medioevo in Umbria, descrive le amatissime Feste dei Folli, durante le quali vigeva “l’abolizione di tutti i rapporti gerarchici e si costituiva un nuovo rapporto tra gli uomini: il senso di estraneità con gli altri spariva e l’uomo ritornava ad essere se stesso, un essere umano fra gli esseri umani. Durante queste feste un elemento fondamentale era il ribaltamento delle gerarchie esistenti ed uno degli artifici usati a tal fine era l’elezione di re e regine per burla che mantenevano la propria carica per tutto il tempo della festa. Nel carnevale tutti partecipavano alla festa, non vi era un palco che separava il pubblico dagli attori poiché era un’esperienza che doveva essere vissuta da tutti. Il momento carnevalesco era una fase necessaria affinché vi fosse una rinascita di tutto il mondo e, quindi, di tutti i partecipanti. Il riso della festa era diretto verso coloro che partecipavano e quindi ridevano anche di se stessi”. Il fenomeno non rimase circoscritto all’Europa mediterranea, ma si estese grandemente anche al Nord. Dal Sito newyorkcarver. com: “Durante il Medioevo molti Europei adottarono il gusto romano per il divertimento eleggendo un Re del Disordine (Misrule) o Re dei Pazzi (…) che aveva il potere di chiamare il popolo alla trasgressione. Scambio di abiti, canzoni ribalde, bevute smodate, sbeffeggi alla Chiesa erano solo alcuni dei comportamenti praticati”. Tali costumanze eccessive cessarono solo in seguito alla Riforma e alla successiva Controriforma. E’ del tutto probabile che Bosch abbia avuto modo di assistere più volte a spettacoli del genere, che del resto contribuiscono a spiegare anche visivamente i dipinti riguardanti non tanto la follia circoscritta quanto quella dilagante, endemica, che incontra il proprio trionfo iconico nel Giardino delle Delizie.
LA REDENZIONE IMPOSSIBILE Come si diceva, l’interesse di Bosch per l’umana follia non si può ridurre ai soli tre dipinti esplicitamente dedicati, ma al contrario è disseminato lungo tutta la sua opera e talvolta lo si ritrova in luoghi inaspettati, come ad esempio il cosiddetto Figliuol Prodigo, forse risalente al 1494. Il Figliuol Prodigo è un tondo – inscritto in un ottagono – dipinto a olio su tavola di legno e originariamente ornava i pannelli esterni di un trittico andato perduto. Si è pensato che vi si facesse riferimento alla Parabola ricordata nel Vangelo di Luca (15, 11 – 32), ma qualcuno ritiene che vi sia rappresentato un vagabondo, anche per le evidenti analogie con il Trittico di Haywain. Altre interpretazioni tuttavia ci sembrano assai più stimolanti, come quella del Sito bobba. to. it che punta soprattutto sull’importanza del simbolismo nell’arte boschiana. In effetti studiando Bosch sarebbe un grave errore limitarsi alle apparenze, dato che in lui ogni dettaglio ha sicuramente un significato, anche se a volte può sfuggire. Senza entrare adesso nei dettagli, diciamo, più propriamente esoterici, mi preme evidenziare le vistose contiguità iconografiche del Figliuol Prodigo con il Folle dei Tarocchi, che comunque non è l’unico Arcano a cui Bosch si sia ispirato (o viceversa). Nella bella monografia illustrata che l’Editrice Giunti ha dedicato a Jeroen (a firma di Mario Bussagli) è detto: “Bosch si rifà spesso all'alchimia e ai tarocchi, per i quali le corrispondenze si estendono addirittura ai soggetti rappresentanti. E il caso, per esempio, del Figliuol prodigo, corrispondente al Ventiduesimo Arcano, Il Matto. Nei tarocchi, il Matto può avere un doppio valore: o il grado più alto dell'iniziazione o il vagabondo con il suo carico di vizi e di brutture. Un duplice valore che può corrispondere al bivio che si apre davanti al figliuol prodigo nel dipinto di Bosch.” Come giustamente sottolinea Bussagli, “L'iconografia del Matto nei tarocchi è varia (…) Ma, nelle quasi contemporanee carte Visconti, il Matto è già qualificato anche fisicamente (ivi compreso lo sguardo allucinato) come un “folle", capace di passare attraverso tutti i rischi con quella incoscienza e fortuna che sono, appunto, proprie dei pazzi secondo alcune tradizioni popolari vive in molte regioni d'Europa. Che i tarocchi fossero molto diffusi in Fiandra ce lo provano alcuni documenti amministrativi dei duchi di Borgogna, che registrano, per l'anno 1379, vari cospicui pagamenti per l'acquisto di mazzi di carte. Si noti che in Francia, dove venivano prodotte, le carte da gioco erano assai costose poiché molti magistrati le proibivano. Tuttavia erano ugualmente diffuse, nonostante che ai magistrati si affiancassero sacerdoti e vescovi nel condannarne l'uso. Del resto, anche san Bernardino da Siena si scagliava contro i “participes ex Naibis (i tarocchi) seu Carticellis (le carte) de quibus innumerabilia mala egrediuntur”: compreso il fatto che alcuni si servivano dei tarocchi per inviare dichiarazioni galanti alle donne che li interessavano”. Tuttavia l’opera in cui più compiutamente si manifesta la visione integralista di Bosch sulla follia della specie umana è probabilmente il celeberrimo Trittico delle Delizie (1504), una pala d’altare (13) tripartita che porta, sulle ante chiuse, il Terzo Giorno della Creazione e, sulle ante aperte e da sinistra verso destra, il Giardino dell’Eden, Il Paradiso Terrestre e l’Inferno Musicale, probabilmente l’opera più inquietante e straordinaria che sia mai stato dipinta da mano d’uomo. Si tratta di un’esecuzione enormemente complessa in cui si concentrano temi e motivi che vanno ben oltre quello della follia di cui ci stiamo al momento occupando. Per concludere almeno sommariamente il presente discorso resta da dire qualcosa sulla follia personale del Pittore, ben trattato sulla rivista Hera (purtroppo non sono riuscita a rintracciare il numero né il nome dell’autore e me ne scuso). Ne riporto alcuni punti salienti: “Già Sigmund Freud nel suo saggio Psicoanalisi del Ge¬nio, si era cimentato nella lettura psicoanalitica del Mosè michelangiolesco. Altri studiosi della psiche umana si sono avventurati nella non facile impresa di interpretare la complessa produzione artistica di Hye¬ronimus Bosch in base a quello che avrebbe potuto essere il suo carattere. Alcuni psicoanalisti (…) si sono avvalsi anche di pre¬sunti ritratti dell'artista, in cui Hyeronimus appare con il "pomo d'Adamo" prominente, magro, con le labbra sottili, con il volto affilato, tutte caratteristiche queste che lo farebbero classificare tra gli astenici, con un temperamento schizotimico caratteristi¬co di un individuo che non si accontenta mai del giusto mezzo, capace di passare dalla più grande euforia alla più cupa depressione. Forse hanno ragione gli psicoa¬nalisti secondo i quali l'opera d'arte è un fenomeno di proiezione dell'inconscio dell'artista. In base a tale chiave di lettura, nel caso di Bosch emergerebbero chiare tendenze sado masochiste sommate a una ne¬vrosi ossessiva. Il noto psicoanalista Jacques Lacan, esponente della scuola freudiana di Parigi, ha messo, inoltre, in evidenza le frequenti scene di castrazio¬ne, di mutilazione, di smembramento, di divora¬mento per riconoscere in esse tutte le immagini ag¬gressive che tormentano da sempre il genere uma¬no. Un altro psicoanalista, Pierre Rabin ha, inoltre, individuato le latenti, os¬sessive pulsioni erotiche di Bosch soprattutto nello scomparto centrale del più volte citato Trittico delle delizie, in cui l'artista sembra proiettare le sue cupidigie sessuali nella sfera lasciva del Demonio. Non manca anche chi ha ravvisato un mai risolto complesso di Edipo, sia nel cambiamento di nome da van Aken a Bosch, nelle fre¬quenti raffigurazioni delle tentazioni di S. Antonio – il nome del padre e nell'aver sposato una fanciulla che si chiamava Aleyt, lo stesso nome della madre.” Cerchiamo di capirci. E’ probabile che in queste spiegazioni ci sia qualcosa di vero. Ma riferire tutta la produzione di un artista alle sue psicopatologie sembra quanto meno semplicistico. Così come appare piuttosto forzata l’altra ipotesi tentata di recente su Bosch e riportata dal medesimo articolo: “Bosch... si dro¬gava? Robert Delevoy ha ipotizzato che alla base delle allu¬cinanti creazioni dell'inquietante Hyeronimus ci fosse¬ro esperienze oniriche di matrice diciamo così psichedelica, originate dall'uso di pozioni o pomate all'epoca ben note anche perché di uso abbastanza co¬mune nell'ambito di chi si dedicava a pratiche occulte, o quantomeno eretiche (…) Il professor Peuckert, dell'Università di Gottinga, anni fa condusse una serie di esperimenti e, avvalendosi di una ricetta rintracciata in trattati del '500, ricompose un unguento delle stre¬ghe a base di prodotti vegetali che sui volontari stu¬denti produsse una sonnolenza prolungata, pullulante di allucinazioni, orge con creature infernali, aggressio¬ni da parte di esseri mostruosi... tutto ciò che possiamo ammirare anche nelle opere del singolare artista di 's¬Hertogenbosch”. Nessuna delle due ipotesi – la psicoanalitica e la psichedelica – sono da rifiutare in toto, ma perdono molto del loro senso se, lasciato da parte per un momento il Trittico delle Delizie, si esaminano i Sette Peccati capitali o S.Giovanni a Patmos o il Trittico dell’Epifania e soprattutto i dipinti che recano l’immagine del Cristo perseguitato. E’ quanto desidero fare nel prosieguo, al fine di dimostrare che si sottovaluta il pensiero globale di Bosch in quanto filosofo e teologo, se lo si esamina esclusivamente alla luce del segno pittorico. In un’epoca in cui l’analfabetismo era ancora pressoché generale chi voleva comunicare verità e contenuti universali era facilmente indotto a ricorrere alle arti visive, se possedeva gli strumenti e le capacità per farlo, anche se non mancavano ovviamente le trattazioni scritte specialmente dopo l’invenzione della stampa a caratteri mobili, avvenuta come si ricorderà proprio nel 1450, l’anno di nascita di Bosch. Bosch criptico, misterioso, indecifrabile? Tutto vero. Ma è vero altresì che, come in un raffinatissimo divertissement visuale Bosch ha disseminato lungo tutta la sua opera innumerevoli indizi per farci (sì, anche a noi postumi) intuire il disegno generale del suo pensiero. Tale grandioso schema si può riassumere in pochi punti. Innanzi tutto, il male è connaturato nella creazione fin dai primissimi “giorni”, com’è attestato dal Trittico delle Delizie che, chiuso, rappresenta il Terzo Giorno e, aperto, reca sullo sportello di sinistra la creazione della razza umana, quando tutto è ancora in apparenza intatto ma già i germi dell’orrore si lasciano intravvedere negli animaletti ributtanti che escono dall’acqua. Il male insidia l’uomo continuamente (si veda sopra la Tavola dei Peccati Capitali) e regolarmente trionfa anche quando, paradossalmente, sembra vero il contrario, come nel Trittico dell’Epifania e nelle Nozze di Cana. Anzi, in tempi cristiani il male è talmente diffuso da rendere impossibile una redenzione collettiva: ne danno prova i dipinti tristissimi che hanno come protagonista Gesù, dal Bambino col Girello alla Salita al Calvario, con la Veronica che, asciugato il sudore del Condannato, si allontana sorridente con il suo bottino. Bosch non proietta l’Apocalisse nel futuro: essa è già qui. Ma lo sguardo del Cristo fisso su ciascuno di noi sembra dire che c’è ancora speranza di salvezza. Proprio nel dipinto con Santa Veronica si assiste al trionfo dell’azione mutagena del male: gli esseri umani, belli e ancora puri – anche se già insidiati dall’abominio – dei vari Paradisi boschiani, si sono ormai definitivamente trasformati in demoni orrendi, per i quali non c’è più speranza di ravvedimento.
In secondo luogo, in Bosch la salvezza, pur sussistendo, non è un fenomeno di massa, ma di élite e parte da una presa di coscienza sconvolgente. Quanto sto per dire è frutto di un’intuizione che non posso sostenere con nessuna vera prova, ma solo con qualche indizio enigmatico come l’argomento che sto trattando. Il principale è costituito dall’angolo in basso a destra dell’Inferno Musicale, il terzo pannello del Trittico delle Delizie. Esiste una notevole somiglianza tra l’autoritratto (Vedi sopra) e il personaggio nudo; inoltre la collocazione della scena è quella che abitualmente i pittori riservano alla propria firma. L’uomo seduto, in posizione pudica, con le gambe accavallate, tiene in grembo una pergamena srotolata che sembra un contratto, ufficializzato dalle ceralacche e dall’individuo (vestito) che sovrasta la coppia e che si potrebbe anche ritenere un notaio o qualcosa di simile. L’uomo seduto viene vistosamente concupito da un maiale femmina – dalle cui effusioni egli si difende mentre sembra accarezzarla – che indossa una vistosa acconciatura da suora. Il tutto si spiega se si ipotizza che Bosch abbia così voluto raffigurare se stesso con la propria sposa, la donna che lo “acquistò” con un sostanzioso contratto di nozze e che, appartenendo ad una congregazione simil-religiosa, vi introdusse lo sposo a fini chiaramente utilitaristici. Insomma, può darsi che qui Bosch abbia voluto raffigurarsi nel momento in cui prese coscienza di aver stipulato una sorta di patto col diavolo, di essersi venduto l’anima insieme al corpo. La costernazione che si legge nello sguardo del nudo seduto – uno sguardo che aggancia l’osservatore e gli parla esplicitamente – potrebbe forse essere interpretata come il primo passo verso una redenzione possibile. E difatti altri dipinti testimoniano che alla salvezza si può arrivare, ma solo individualmente, con enorme fatica e impegno personale, anche perché le energie maligne non smettono affatto di assediare chi abbia scelto la retta via: si vedano le opere sui santi eremiti, prima tra tutte Le Tentazioni di Sant’Antonio. Bosch – e può sembrare strano – ha dipinto una sola scena riguardante direttamente l’Apocalisse ed è, altra apparente stranezza, una scena niente affatto “apocalittica”: il San Giovanni in Patmos. Credo che nei suoi Santi Bosch abbia voluto in qualche modo ritrarre se stesso, quasi in naturale evoluzione del punto-nave fatto sulla propria vita nell’angolo in basso a destra dell’Inferno Musicale. Ad un certo momento egli deve essersi visto per quello che era diventato: un corpo, una cosa, usato e abusato dalla sua compratrice, dedito ai piaceri della materia e alla disperazione che ne deriva. Una volta presa la decisione di intraprendere la via della catarsi, il peccatore pentito Bosch diviene un Sant’Antonio, torturato dalla violenza mostruosa delle tentazioni di cui il suo mondo è stracolmo. Ma perseverando nella direzione ascetica si potrà trasformare infine nell’ultimo Bosch, quello di Patmos, contro cui il demoniaco si muta in ridicolo perché il Santo può contare sull’aiuto delle sfere celesti. Qui il male non è del tutto scomparso, ma si trova ormai ad un livello (il primo) superato dall’uomo-Santo (il secondo livello). Questi riceve ispirazione dall’Angelo (terzo livello) e il tutto è posto sotto la protezione vigile e benevola della Vergine (quarto livello). Il Santo, però, guarda qualcosa che è al di fuori della realtà, sia terrena sia celeste. E’ forse troppo audace azzardare che si tratti di Dio, che sta da qualche parte a sinistra della composizione, forse perché nella nostra cultura leggiamo da sinistra verso destra e dunque a sinistra, nel dinamismo di un’immagine grafica, si colloca l’inizio e a destra la fine? Il San Giovanni a Patmos è probabilmente l’unico dipinto rasserenante di tutta la produzione boschiana, anche se il consolante messaggio che esprime si può trovare anche altrove. In fondo il paradigma non riguarda solo Bosch, come si evince dalle Visioni dell’Aldilà. La Salita all’Empireo, con le anime che, sostenute e aiutate dagli Angeli, si sforzano di lasciare le tenebrose foschie terrene, indica che la salvezza è un fatto selettivo ma non esclusivo, perché alla fine di tutti i tormenti insiti nell’essere stati creati qualcuno di noi potrà trovare la bianca luce dell’Empireo che attende paziente in fondo al tunnel.
NOTE 1 Dal Sito wikipedia. it. 2 La citazione seguente è da Bosch di Mario Bussagli, Giunti Editore. 3 Scuole dei "Fratelli della Vita Comune" (in una di queste trascorse tre anni Erasmo da Rotterdam). 4 Spesso simbolo di lascivia. 5 Del Concerto non solo si ignora perfino la data approssimativa della composizione, ma addirittura se il dipinto giunto a noi sia autentico o meno. Anche se non risulta che Bosch abbia avuto una vera e propria bottega, è probabile che avesse qualche allievo o apprendista e sicuramente molti imitatori. 6 Da wikipedia. org 7 Da wikipedia. it. 8 Vedi più avanti. 9 Edito a Basilea nel 1494. 10 Non a caso siamo alla vigilia della Riforma protestante. 11 Da wikipedia. it. 12 “La satira (dal latino satura lanx, nome di una pietanza mista e colorata) è una forma libera e assoluta del teatro, un genere della letteratura e di altre arti caratterizzato dall'attenzione critica alla politica e alla società, mostrandone le contraddizioni e promuovendo il cambiamento” (da wikipedia. it). 13 Destinata però probabilmente ad uso privato.