Chiara Santagada


Il re del tempo


Per il processo di entificazione ben noto in antropologia, il tempo (qualunque cosa esso sia) aveva presso le antiche culture dignità regale e spesso divina. Anche rimanendo circoscritti al solo Mediterraneo si incontrano numerosi esempi, di cui ho scelto il greco, l’etrusco – benché in subordine data la scarsità di informazioni dirette che tuttora affligge tutta la storia di questo popolo, a cominciare dal problema delle origini – e il romano. I La Grecia arcaica. Sulla Grecia arcaica la fonte più preziosa è probabilmente la Teogonia di Esiodo. Subito dopo l’invocazione alle Muse il poeta affronta il racconto degli inizi, il Bereshit (1) degli ebrei, e, riallacciandosi presumibilmente alle cosmogonie pre-indoeuropee, afferma che “in principio il primo fu Caos”, termine che, provenendo forse dal verbo hiao, da un lato esprime il concetto di un abisso senza fondo e dall’altro si ricollega etimologicamente al nome di Giano. “Dopo” Caos – o da Caos? – emersero Tartaro nebbioso, Eros e Gaia dall’ampio petto: la morte, la vita e la forza che anima il tutto (ricordiamo che eros deriva da erao = desiderare con passione). A questo punto ha inizio la generazione, ciò che porterà inevitabilmente anche alla nascita del tempo. Ma di quale tempo si trattava: di quello lineare, umano, che va in una sola direzione, oppure di quello circolare, cosmico, che suggerisce per analogia l’eterno ritorno? Stando ad Esiodo, la generazione primeva fu agamica. Infatti da un lato “da Caos nacquero Erebo e la nera Notte”, dall’altro “Gaia per primo generò, simile a sé, Urano stellato, che l’avvolgesse tutta d’intorno”. Alla partenogenesi, però, si sostituisce ben presto la hierogamia: Notte, “unita in amore” al figlio Erebo (l’oscurità) genera Etere (il cielo diurno) e Giorno, mentre Gaia, dopo aver creato da sola “i monti grandi”e il “mare infecondo”, giacendo con il figlio-sposo Urano (il cielo notturno) pone in essere la prima vera e propria dinastia di Esseri cosmici, tra cui “Oceano dai gorghi profondi”, Iperione ( = il Signore Che Sta Sopra, prima divinità solare dell’antica Grecia), Rea, Temi (la giustizia), Mnemosine (la memoria) e infine, buon ultimo, Cronos, il tempo. Il processo, come si intuisce, traccia un preciso cammino del procedere creativo dal disordine (Caos) all’ordine (Kosmos): il tempo, per la mentalità primitiva, certamente rappresentava una assicurazione sulla sopravvivenza della vita malgrado l’evidente strapotere della morte. Figlio della terra ma anche delle stelle, Cronos è destinato ad un’azione decisiva, contemporaneamente fine ed inizio: la mutilazione genitale del padre Urano che, per timore di essere spodestato, non permetteva ai figli, i Titani, di uscire dal grembo di Gaia. Fu quest’ultima che, incapace di sopportare la sofferenza che gliene derivava tanto quanto l’ingiustizia insita in tale comportamento, “creata la specie del livido adamante, fabbricò una gran falce” e incitò i figli a rivoltarsi contro il padre, che “per primo aveva concepito opere infauste”. Nessuno osò, tranne Cronos. La madre armò la sua mano e tutti insieme attesero il sopraggiungere della sera, quando “venne, portando la notte, il grande Urano, e tutto attorno a Gaia incombette desideroso d’amore e ovunque si stese”. Naturalmente Urano, divinità primordiale, non poteva essere ucciso. Ma poteva essere privato degli organi che erano stati, per così dire, l’arma del suo delitto: mutilato e castrato, sarà costretto a ritirarsi lontano, lasciando lo scettro ad una nuova coppia divina: Rea e, com’era prevedibile, Cronos, di cui la falce divenne il simbolo. Il Tempo aveva stabilito così una delle sue regole precipue: il potere è di chi ha la forza necessaria per conquistarlo e conservarlo. Nella crudele ma logica sfida tra il vecchio e il nuovo, il vincitore regna, il vinto soccombe. Nell’Italia protoromana il Rex Fugitivus fu per secoli la materializzazione rituale di questa legge spietata ma, in un’ottica naturalistica, anche giusta, la stessa che tuttora domina presso molte specie animali, e, sovente, anche presso gli umani. Alla legge del più forte c’è però un corollario: chi ha spodestato il predecessore prima o poi sarà a sua volta spodestato. Per evitare l’evenienza, Cronos pensò ad un sistema più astuto di quello paterno: conservare i propri figli in se stesso, obbligando Rea a consegnarglieli appena nati e quindi inghiottendoli senz’altro. La metafora si chiarisce sempre più. Il tempo ci inghiotte ma non ci annienta e può bastare poco per costringerlo a rivomitarci: per esempio un emetico, dato al momento giusto dal personaggio giusto, in questo caso Zeus, salvato dall’espediente della madre Rea e dal consiglio della fidanzata Metis. Al posto della violenta defenestrazione subita da Urano, il dio Tempo se la cava con un mal di stomaco; un’evoluzione, indubbiamente, anche perché Zeus agisce contro il padre in prima persona ma non da solo: grazie al vomitatorio dispone dell’assistenza e della solidarietà di due fratelli (Hades e Poseidone) e di tre sorelle (Demetra, Estia ed Hera). Insieme cacciano in esilio il padre e si spartiscono il potere, dando così l’avvio alla nuova generazione divina, quella degli Olimpi. E Cronos? E’ dunque finito il Tempo, dopo un regno assoluto ma, tutto sommato, breve? No, certo. Egli si è rifugiato a Occidente (2), in quello che per gli abitanti della Grecia era il paese del tramonto, l’Esperia, in seguito detta Italia, dove il dio cambierà nome divenendo Saturno (dal participio passato satum del verbo serere = seminare, coltivare) ma conserverà la falce, destinandola tuttavia ad usi più pacifici, collegati all’agricoltura. Nella nuova sede Cronos-Saturno si imbatterà in Giano, un incontro non privo di interessanti risvolti mitologici e culturali. II Il Giano etrusco. I Romani erano orgogliosi di considerare autoctono il loro Janus Bifrons e i Fasti di Ovidio ne danno ampia testimonianza(3). Eppure il loro Guardiano della Soglia aveva avuto più di un predecessore etrusco, il che potrebbe farne tanto uno degli Dei Indigetes quanto uno dei Novensiles, visto che ancora non sono stati risolti i misteri dell’origine. Ufficialmente il dio etrusco più simile a Giano era probabilmente Ani, signore del Paradiso e abitatore dell’alto dei cieli. Detta ubicazione fa pensare che in antico si trattò forse di una delle ipostasi del dio supremo, carica che con l’andare del tempo passò ad altri, per esempio Tinia, corrispondente al Giove romano nonché al greco Zeus. Una sorte uguale e contraria toccò a Veltha, che nel passaggio epocale dalla cultura etrusca a quella romana si trasformò nel dio minore Voltumna e infine Vertumno. Quest’ultimo nome in particolare, derivando dal verbo vértere (volgere) sembra collegarsi ad una divinità stagionale, in cui è contenuto implicitamente il concetto di tempo. Governatore dei mutamenti, regolava la crescita delle piante, degli alberi da frutto (4) e dei giardini. Possedeva il potere specifico di mutare forma a proprio piacimento. Malgrado la poco brillante conclusione della carriera, Veltha era stato per un periodo tanto importante da meritarsi il rango di dio supremo nell’ambito della Federazione delle città-stato dell’Etruria, dodici come i mesi dell’anno. Un indizio in più per ritenere, insieme al ricercatore Nello Mangiameli, che il dio rappresentasse la potenza unica, nascosta dietro e dentro le molte divinità del Pantheon etrusco, il che rende ragione anche del concetto di cambiamento implicito nel nome. Il fatto che venisse adorato con appellativi diversi è del tutto normale nel contesto religioso dell’antichità. A quanto afferma Mangiameli Veltha era “il Dio doppio, simile a Giano bifronte, colui che più di altri poteva vedere a trecentosessanta gradi, davanti e dietro, il futuro e il passato posizionati nel presente”. Proprio per tale peculiarità – in fondo una formulazione italica del principio ermetico del “due che diventa uno” - a Veltha si attribuì anche il ruolo di Guardiano delle Porte che siamo avvezzi ad associare a Giano, il quale comunque ha un precursore etrusco anche in Culsans, altro dio bifronte, specialista della Soglia tra “gli stati coscienziali”, compresa quella tra l’aldilà e l’aldiquà. Infatti Culsans regolava l’inizio delle stagioni, come il latino Vertumno. Ancora un passaggio rimane prima di affrontare finalmente a Giano, il “re” che accolse Cronos – in procinto di diventare Saturno – in fuga dalla Grecia. La time line che stiamo seguendo ci porterà ora in un antichissimo bosco sacro del Lazio dedicato alla Grande Dea nella forma di Diana e al suo sposo divino, Virbio. Il culto era prestato loro da un sacerdote molto particolare, il Rex Nemorensis, ossia il Re del Bosco. III Rex Fugitivus. Il sacerdote di Nemi, sede del culto laziale di Diana, doveva per legge essere uno schiavo in fuga, forse perché questa categoria di persone non aveva nulla da perdere, neppure la vita. Per ottenere il ruolo, infatti, l’aspirante uccidere il predecessore, il quale naturalmente aveva il diritto di difendersi con ogni mezzo. Il vincitore del duello mortale diventava (o rimaneva) il Rex Nemorensis (5) fino alla prossima sfida. Il rito feroce con ogni evidenza affondava le sue radici negli antichissimi culti della Dea, il cui partner, in origine, doveva morire ogni anno, come il Sole di cui era il rappresentante. E come il Sole, che sembra morire al Solstizio d’inverno, risorgeva subito dopo nella persona di un nuovo sposo. A Nemi la Dea era venerata in quanto Diana, la Luna, mentre uno dei nomi dello sposo – più tardi sostituito dal Rex Nemorensis – era Dianus, termine che significa il Luminoso. La Dea era dunque la luce della Luna, il Dio suo compagno quella, maschile, del Sole. Ora, per le imperscrutabili leggi che determinano l’evoluzione delle lingue, sappiamo che Dianus e Janus sono la stessa parola riferentesi all’entità divina che sovrintende al ciclo solare e ai suoi apparentemente immutabili ritmi. Per la mentalità magica degli antichi, era necessario che Dianus morisse ogni anno per ricordare al Sole che bisogna anche risorgere. Non a caso c’è chi pensa che la sfida tra il Rex Nemorensis e il Fugitivus non avvenisse in un momento qualsiasi bensì in periodi fissi, presumibilmente alla fine di ogni anno solare. Questa tradizione e i miti ad essa collegati rivelano evidentemente una matrice troppo matriarcale per potersi conservare ufficialmente in epoca romana. Subirono perciò alcune modifiche che finirono per fare di Giano una divinità, per così dire, mista: da un lato popolare, ricca di aneddoti a volte anche stravaganti (6); dall’altro un’entità complessa e possente, come appare ad esempio nel Liber Primus dei Fasti di Ovidio. Signore della Soglia (7), dio dei cambiamenti e dei passaggi, del progredire dal passato verso il futuro, del transito da una condizione all’altra, da una visione all’altra, da un universo ad un altro (8), Giano si invocava prima del raccolto e della semina, ad ogni matrimonio (9), ad ogni nuova nascita ed era addetto ad ogni (intrinsecamente) perigliosa terra di nessuno, anche quella tra la barbarie e la civiltà, tra la campagna e la città, tra l’età giovanile e l’età adulta. Benché non abbia omologhi se non in Etruria, a Roma si congetturò anche che provenisse dalla Tessaglia e cioè dalla Grecia (10); giunto in Italia si sarebbe stabilito nel Lazio. Uno dei suoi figli fu Tiberino. Dall’ultima moglie (11), Giuturna, generò Fontus. Giano fin dall’antichità fu accostato al Sole, credo soprattutto in quanto principio regolatore (ritmico, temporale: vedi funzione calendariale) del ciclico percorso annuale, tanto che a lui prima che a Saturno si riferiva l’Età dell’Oro. Sotto questo rispetto fu ovviamente considerato anche un Eroe Culturale, cui venne attribuita l’introduzione della moneta, delle leggi e dell’agricoltura. I Romani gli dedicarono numerosi miti eziologici, come quello che cercava di spiegare il motivo per cui le porte del suo tempio rimanevano sempre aperte in tempo di guerra. Si diceva che quando, in seguito al ratto delle loro donne, i Sabini attaccarono la neofondata Roma, Giano fece sprizzare dal terreno una sorgente di acqua caldissima, mettendo così in rotta gli avversari. L’apertura del tempio (12) serviva a consentirgli di intervenire ancora a beneficio dei beneamati Romani. Centrale nel complesso del mito è certamente la bifrontalità, ma sembra interessante anche la presenza della barba nell’iconografia riguardante Giano. In antico solo una delle due facce si presentava barbuta (13) e in questo qualcuno ha voluto scorgere una prova dell’ermafroditismo del dio: la sua effigie, due-in-uno, sarebbe insomma una specie di Tao mediterraneo, in cui lo Yin femminile (la faccia glabra) si troverebbe indissolubilmente unito allo Yang maschile, dotato di uno dei segni tipici della virilità, il cosiddetto onor del mento. L’ipotesi è sostenuta anche dall’attribuzione di un valore lunisolare alle immagini bifrontali di Giano. Un dettaglio curioso: nel tardo Medioevo l’aggettivo “bifronte” divenne nome proprio di un diavolo, Bifrons. Generale infernale a capo di sei legioni demoniache, si affermò che fosse in grado di insegnare le arti e le scienze, in particolare quelle relative alle virtù delle pietre e delle piante (erbe e alberi). Aveva inoltre lo strano gusto di spostare i cadaveri da una tomba all’altra (14), suscitando a volte nei cimiteri magiche luci simili a candele. Anche se poteva assumere sembianze umane, l’aspetto di Bifrons era mostruoso, caratteristica che lo associa più di ogni altra al dio romano la cui forma aberrante, tuttavia, va letta piuttosto in chiave benevolmente allegorica. Un attributo simbolico del dio è la chiave, il che enfatizza ulteriormente il concetto di Soglia. Ce lo riferisce, tra gli altri, Ovidio, che proprio a Giano stava pensando quando improvvisamente lucidior visa est quam fuit ante domus (15). Era il dio che si manifestava, “ tenens baculum dextra clavemque sinistra (16) . La sua numinosità dapprima sconvolse il poeta (17), ma quando Giano cominciò a parlargli con tono rassicurante Ovidio si rilassò facendo attenzione alle spiegazioni che gli venivano fornite sulla natura dello stesso dio: me Chaos antiqui (nam sum res prisca) vocabant (18). Il verso ci riporta con naturalezza all’inizio del presente discorso, a quando il tempo non era ancora stato inventato, allorché “aer, ignis, aquae e tellus” costituivano “unus acervus”, il che significa che i quattro elementi fondamentali – aria, fuoco, acqua e terra, pur esistendo, costituivano all’inizio un insieme disordinato e perciò inutilizzabile. Ma poi una lite (!) separò gli elementi, il fuoco salì verso l’alto, l’acqua e la terra si posizionarono in basso e in mezzo si mise l’aria. Tunc ego, qui fueram globus et sine imagine moles, in faciem redii dignaque membra deo. “Allora io, che ero stato un’informe massa sferica, ritornai all’aspetto fisico degno di un dio”. Quel “ritornai” da solo meriterebbe un saggio. Ovidio sta forse alludendo al fatto che Giano era già stato come gli si stava mostrando e che, per qualche ragione, era diventato “sine imagine” per poi ridiventare quello che era? Ma poi cos’era, esattamente? quicquid ubique vides, caelum, mare, nubila, terras, / omnia sunt nostra clausa patentque manu. / me penes est unum vasti custodia mundi, / et ius vertendi cardinis omne meum est. “Tutto quello che puoi vedere – il cielo, il mare, le nuvole, la terra – tutto può essere chiuso e aperto solo per mano mia. Solo a me pertiene la custodia del vasto mondo e il diritto di farne ruotare il cardine”. Un dio onnipotente, dunque, più grande dello stesso Giove, universale. E subito dopo, il chiarimento definitivo: praesideo foribus caeli cum mitibus Horis “Presiedo alle porte del cielo assieme alle miti Ore”. Le Ore erano la trinità femminile del tempo e Giano il loro corifeo, il dio Tempo in persona, che assieme ad esse danzava con la sua doppia dimensione di passato e futuro, più la terza, data dal punto di contatto tra entrambi, il presente. Come spesso accade a chi si occupa di mitologia, anche nel caso del romano dio Giano si scopre alla fine che la sua figura offre una stupefacente serie di livelli di fruibilità. 1 “In principio”. 2 Punto cardinale collegato con la morte, per analogia con il tramonto del sole. 3 Quem tamen esse deum te dicam, Iane biformis?/ nam tibi par nullum Graecia numen habet (“Come potrò descrivere la tua essenza divina, Giano biforme? La Grecia infatti non ha nessun dio che ti assomigli”). 4 “Arbores felices”. 5 Da nemus, bosco. 6 Per esempio quello relativo a Carna o Carda, una ninfa del Tevere che si divertiva ad eccitare i corteggiatori attirandoli in una grotta, salvo poi piantarli in asso sul più bello scomparendo. Con Giano il giochino non funzionò perché lui, avendo la doppia vista, riuscì a scorgerla e a possederla. Per aver dovuto accettare la violenza del dio, Carda ne ottenne a titolo di risarcimento il potere sui cardini delle porte. 7 La bi- o quadrifrontalità di Giano allude tra l’altro ad una fondamentale caratteristica del Guardiano, un archetipo poco conosciuto ma presente più o meno in tutte le culture. 8 Dal Sito Wikipedia. it. 9 Il matrimonio può essere visto sia come cuspide tra una fine (della vecchia vita da scapolo o nubile) e un principio (della nuova vita come coppia), sia come passaggio iniziatico da un livello evolutivo inferiore, l’infanzia, ad uno superiore, collegato alla costituzione di una famiglia propria e alla riproduzione. L’invocazione a Giano si collegava comunque anche al cambiamento di luogo, perché gli sposi di solito lasciavano le rispettive case parentali per trasferirsi in quella loro destinata, 10 Il che è ben logico, sulla base del mito di Saturno. Ricordiamo che non solo Cronos cambiò nome giungendo in Italia ma anche la sua sposa Rea, che in Occidente diventò Ops, cioè benessere, abbondanza, ricchezza. 11 Altra sua sposa fu Iana. 12 Anche se dell’originaria Aedes Janus non ci è rimasta nessuna traccia, il poco che ci è noto sul celebre Tempio dice molte cose sulla spiritualità e insieme sul pragmatismo cultuale dei Romani.. Sorgeva non lontano dal Foro e conteneva all’interno la statua del dio; era dotato su entrambi i lati di porte, che venivano chiuse in tempo di pace e aperte durante le guerre, per consentire al numen di uscire di casa e recarsi sul campo di battaglia per sostenere i Romani. Sulle estensioni esoteriche del concetto di porta come topos del sacro ci sarebbe molto da dire: basti qui ricordare che Iside, la massima divinità egizia, era spesso rappresenta in trono davanti a una porta fiancheggiata da due colonne. L’identificazione della parte con il tutto era del resto comune nella mentalità degli antichi. Dato il carattere guerriero della civiltà romana, le porte del tempio di Giano rimasero comunque aperte per secoli finché Augusto, l’Imperatore della Pax Romana, riuscì finalmente a chiuderle – e più di una volta, sia pure per breve tempo – menandone gran vanto. 13 Un’allusione allo scorrere del tempo e al succedersi delle stagioni anche nei cicli umani oppure al vecchio re sacro che viene dapprima affiancato e poi sostituito da quello nuovo, giovane e forte? 14 Un Guardiano ai Cancelli della Morte? 15 “La casa divenne molto più luminosa di prima”. 16 “Tenendo il bastone nella destra e la chiave nella sinistra”. Si tratta dei due attrezzi, qui in funzione simbolica, di ogni buon portinaio: la chiave per aprire e chiudere, consentendo e contemporaneamente vietando, l’accesso; il bastone per punire e mettere in fuga i malintenzionati. 17 “Extimui sensique metu riguisse capillos,/ et gelidum subito frigore pectus erat” (“Ebbi paura e mi accorsi che mi si erano drizzati i capelli, mentre i cuore mi si gelava per un freddo subitaneo”). 18 “Gli antichi (io sono infatti cosa molto vecchia) mi chiamavano Caos”.