Chiara Santagada


Janas e Janare


[Dedico questa Nota ai gruppi “Donne del Nuorese” e “Le streghe del Sannio”, agli amici sardi e a Giovanna Visone, la mia beneventina preferita. Il testo è un rimaneggiamento di passi tratti da due diversi Capitoli della mia dispensa “Quando la dea tesseva il mondo”].

Il folklore sardo presenta numerose figure preternaturali rientranti nella sfera del femminile: le janas, per esempio, piccole fate che vivevano in buchi scavati nelle rocce (le cosiddette domus de janas).
Di pelle bianchissima, potevano spostarsi solo di notte perché altrimenti il sole avrebbe potuto danneggiarle e per illuminarsi il cammino diventavano luminose.


Uscivano solo per andare a pregare (nei templi nuragici); il resto del tempo lo passavano in casa, nei cui lavori erano espertissime: famose le stoffe mirabili da esse intessute con telai d’oro e il pane sottile preparato grazie a setacci d’argento. Le janas erano dunque l’entificazione dell’aspetto femminile positivo: sempre in casa, brave ed efficienti in tutto, belle e dispensatrici di luce e di ricchezza. Ma, naturalmente, per ottenere da loro tanti preziosi favori, c’era uno scotto da pagare: evitare le muscas maceddas, orribili creature con testa di pecora, un occhio solo al centro della fronte, denti aguzzi, ali corte e, sulla coda, un pungiglione velenoso (1). Guardiane del tesoro, le muscas servivano anche a mettere alla prova chi aspirava a conquistarlo. La cassa in cui si nascondevano stava insieme a molte altre piene di oggetti di valore e se il cercatore la apriva per sbaglio le muscas gli si avventavano contro. Quindi pochi osavano portare a termine la ricerca e i tesori rimanevano di proprietà delle janas. Costoro, va ricordato, possedevano anche il dono del canto, che allietava (e turbava, crediamo) chi passava vicino alle loro abitazioni.
L’incantevole leggenda è ancora oggi diffusa in Sardegna: c’è perfino chi si chiede (2) se si trattasse di fate, streghe o qualcos’altro, magari creature appartenenti ad un’altra razza, “temuta e rispettata” dal popolo dei nuraghi. Capaci di “cambiare aspetto e dimensioni a loro piacimento”, abitavano in case scavate nella roccia personalmente con le unghie d’acciaio (3). Il culto tributato dai Sardi alle janas imponeva di chiamarne una come madrina ogni qualvolta nasceva un bambino (4).
In tutt’altra parte d’Italia, piuttosto distante dall’Isola, e precisamente a Benevento, troviamo un’analoga categoria di esseri preternaturali che l’immaginazione popolare ha finito per considerare, senza mezzi termini, streghe, chiamandole però, più significativamente, janare. Il collegamento con il dio italico Giano balza agli occhi e ciò vale naturalmente anche per le janas.


Come abbiamo evidenziato nel saggio breve Gli Dei del Tempo, di prossima pubblicazione su Internet, presumibilmente il culto di Giano era una derivazione di quello che a Nemi, sede del culto laziale di Diana, veniva tributato alla Grande Dea nella sua forma lunare. Il nome del suo sposo (5), il grande Sacerdote, era Dianus, o Djanus, quindi Janus e infine Giano. Il Re Sacro, com’è noto, durava in carica solo temporaneamente, in quanto rappresentante in terra del dio Sole, che ogni anno sembra declinare e morire per poi rinascere subito dopo il solstizio d’inverno. Giano era perciò una divinità solare e cronologica, invocata per affrontare i momenti critici dei cambiamenti e dei passaggi, del progredire dal passato verso il futuro, del transito da una condizione all’altra, da una visione all’altra, da un universo ad un altro (6).
Nella cultura romana il dio, divenuto tanto popolare da dare il nome al primo mese dell’anno, Januarius, era addetto anche alla protezione della soglia di casa e della relativa porta, la janua.
Ebbene, qualcuno fa risalire la parola janare proprio alla janua, sotto la quale sembra riuscissero a penetrare come un alito di vento ed è per questo che all’interno delle porte venivano appesi sacchetti pieni di sale o scope, affinché la janara, una volta entrata, fosse costretta a contare uno per uno i granelli di sale o i fili della scopa. Il sole dell’alba le sorprendeva ancora intente in tale occupazione e le induceva alla fuga perché, come tutte o quasi le creature della notte, avevano paura della luce.
Il comprensibile desiderio di tenere le janare fuori casa costituisce un’importante diversificazione dal rispetto riservato alle janas in Sardegna. Potendo comparare i tempi e le date dei rispettivi culti probabilmente emergerebbe che nel Beneventano tali creature risentirono della demonizzazione attuata dopo l’avvento del Cristianesimo dalle autorità religiose nei confronti delle antiche divinità pagane. Delle janare si cominciò a pensare che fossero malefiche fattucchiere, operanti nel campo della Bassa Magia o Stregoneria. Ciò spiega anche il segreto di cui tali pratiche erano volutamente circondate, visto che la Magia Nera è sempre stata proibita e severamente punita dal legislatore, anche in tempi pre-cristiani. Ovviamente non si conosceva l’identità ufficiale delle janare, che di notte si cospargevano di unguenti magici e spiccavano il volo in groppa ad una scopa di saggina. Nel momento del balzo pronunciavano la formula: “Sott'a l'acqua, sott'a 'r vient, sott'a la noc d' Benvient”. Come si vede, un incantesimo tipico che per di più contiene precisi riferimenti alle forze elementali della natura, con cui le janare mantenevano rapporti strettissimi. Un altro esempio? I loro convegni sotto il sacro noce (7), nelle notti del sabato, quando celebravano i loro riti peccaminosi e nefandi. Un’altra caratteristica interessante delle janare era quella di acquisire, quando si trasformavano diventando capaci di volare, la inconsistenza del vento. In mitologia si incontra più volte, per esempio nel caso delle Arpie e anche delle Sirene arcaiche, l’associazione tra i volti oscuri della Dea, gli uccelli e i venti di tempesta.
I sabba delle janare si tenevano dunque sotto un albero sacro – sacro come la quercia, l’albero della Grande Dea – che ovviamente dava molto fastidio agli oppositori del paganesimo. Quando i Longobardi diedero vita al Ducato di Benevento, benché formalmente converti al cristianesimo conservarono alcuni culti arcaici, tra cui quello della Vipera. In una complessa cerimonia stagionale, i cavalieri appendevano una pelle di serpente al noce sacro e a cavallo ne strappavano pezzi che poi mangiavano (8). Ad un certo punto le autorità cristiane riuscirono a far tagliare il noce (9), che per molto tempo, si disse, continuò a rispuntare sul posto originario.
Sembra allora abbastanza chiaro che le janare – tanto quanto le jane di Sardegna – erano in realtà emanazioni minori (o sacerdotesse) della Grande Dea. Degli antichi poteri conservarono, in epoca cristiana, solo quelli maligni, che si estrinsecavano nei malefici. Oltre a provocare aborti e a causare l’infertilità, entravano nelle case per far male ai bambini, opprimere come incubi i dormienti, manomettere gli utensili dei contadini, far marcire le provviste, sfiancare il bestiame con galoppate notturne. La loro attività più intrigante era però forse la seduzione degli esseri umani, come raccontano le tante leggende sulla Moglie Janara. In una ad esempio si parla di un uomo che una notte sorprese la sposa a spalmarsi d’unguento e poi buttarsi dalla finestra prendendo il volo. Il bravo marito le sostituì la magica pomata e quindi la donna finì sfracellata al suolo. In un’altra si narra di un marito meno feroce o più curioso che, avendo scoperto la reale natura della moglie, gliene parlò per chiederle di partecipare al prossimo sabba. Doveva trattarsi di un’occasione speciale, per la quale si erano raccolte le janare di tutto il mondo. La cerimonia ebbe inizio con un grande banchetto, ma il marito trovò il cibo poco saporito e chiese che gli fosse portato il sale per correggerlo. Ed ecco che tutto sparì all’istante e l’uomo si ritrovò solo, nella grande notte della campagna. La storia non dice se nei pressi vi fosse il noce di Benevento.


1 - Il particolare delle ali fa pensare alle classiche Arpie, mentre il pungiglione sulla coda richiama forse gli scorpioni e dunque, sia pure da lontano, anche i ragni.
2 - Dal sito vampiri.net.
3 - Le unghie metalliche ricordano le caratteristiche fisiche particolari di Medusa, la Gorgone decapitata da Perseo con l’aiuto di Atena.
4 - Il che fa pensare alle fate della Bella Addormentata, fiaba del fuso e dell’iniziazione femminile.
5 - Il suo titolo era Rex Nemorensis, da Nemi ma anche da nemus, nemoris = bosco sacro. Era noto anche come Rex Fugitivus perché per legge poteva essere solo uno schiavo in fuga a di sfidare e uccidere il proprio predecessore. Si tratta di cerimonie cruente che fanno pensare alle sfide stagionali tra maschi - per il possesso delle femmine e quindi per il diritto a riprodursi - presso non poche specie animali, tra cui il cervo, altro Re del Bosco.
6 - Dal Sito wikipedia. it.
7 - Il noce di Benevento aveva la caratteristica di essere sempre verde, in ogni stagione.
8 - Esiste una vera e propria “magia fagica”, di cui fanno parte i Pasti Sacri, compresi certi casi di antropofagia, nonché la cosiddetta grafofagia , che implica per lo più l'ingestione di testi scritti e dei rispettivi supporti. Questo tipo di incantesimo era già usato nell'antichità e in alcune tradizioni sopravvive ancora ai giorni nostri. Il Sito Vampiri.net ricorda che “nell'antico Egitto si usava raccogliere l'acqua che era stata fatta scorrere sulle statue delle divinità, ricoperte di formule magiche, e quindi di berla a scopo terapeutico”, mentre presso gli Ebrei le donne adultere erano costrette “a bere dell'acqua nella quale è stata lasciata una maledizione scritta. In Mesopotamia molte coppe d'argilla venivano incise con formule magiche e rituali, si ipotizza sempre a scopo curativo. Ancora oggi nell'Africa islamica sono parecchie le persone che scrivono versetti del Corano su pezzi di carta che lasciano a macerare nell'acqua per poi berla. In Tibet vengono confezionati dei piccoli amuleti o delle pillole di carta manoscritta che vengono ingeriti sempre a scopo terapeutico o bene augurante” (Sito vampiri. net).
(9) - “Quando Benevento venne assediata dalle truppe bizantine di Costante II, san Barbato assicurò la salvezza a Romualdo, che era a capo dei Longobardi di Benevento, a condizione di non adorare più la Vipera. Romualdo promise che i Longobardi avrebbero abbandonato il culto. Le truppe di Costante II si ritirarono e così Romualdo fu salvo e fece nominare san Barbato vescovo di Benevento. Tuttavia Romualdo continuava a conservare in casa, nascostamente, una vipera l'oro. San Barbato riuscì a farsi consegnare la vipera d'oro da Teoderada, la moglie di Romualdo. Fuse l'oro e ne fece un calice per celebrare l'Eucarestia” (Sito citato).