Chiara Santagada
Dalla Serie APPUNTI DI FILOSOFIA - LA FILOSOFIA NASCOSTA
LA DANZA DI PSICHE - 1
“Chi
pensa sia necessario filosofare deve filosofare e chi pensa non
si debba filosofare deve filosofare per dimostrare che non si
deve filosofare; dunque si deve filosofare in ogni caso o
andarsene di qui, dando l'addio alla vita, poiché tutte
le altre cose sembrano essere solo chiacchiere e vaniloqui”
(Aristotele).
A volte la filosofia si nasconde talmente bene che riesce difficile ritrovarne le tracce. Nella danza, per esempio. Tanto che il ricercatore, di fronte alla scarsità di materiale specifico, potrebbe essere tentato di lasciar perdere, pensando che in fondo è possibile che non neppure esista una “Filosofia della Danza”. Ma poi incontra, quasi per caso, immagini e suoni che gli dicono tutt’altro e la spinta ad andare avanti non solo ritorna, ma si fa via via sempre più forte. Come sempre, ci si accorge presto che l’argomento presenta innumerevoli sfaccettature e che pertanto sarà indispensabile distinguere. Che cosa hanno in comune la Haka dei Maori con i Mamuthones di Sardegna o il balletto classico con le performance dello shamano? Che cosa unisce i riti dionisiaci alle danze funebri dell’antico Egitto, il sensuale tango argentino con la danza del ventre, le statiche posizioni dell’Estremo Oriente con le sfrenate tarantelle dell’Italia meridionale?
Un tuffo in una di esse, in un
certo senso la madre di tutte le tarantelle, ci aiuterà
a capire meglio qualcuno dei significati che si celano sotto
l’abito apparentemente leggero di un ballo popolare.
Stiamo parlando della pizzica pugliese, sulle cui connessioni
con la cultura e la danza dell’antica Grecia sarà
prima o poi il caso di ritornare.
Già il semplice
testo di una canzone ci può dire molto:
PIZZICARELLA
MIA
Pizzicarella mia, pizzicarella, / lu caminatu tou pare
ca balla. / Te l'ura ca te vitti te 'mmirai, / nu segnu fici a
menzu l'occhi toi. / Ca quiddhu fu lu segnu particolare / cu nu
te scordi mai te l'amore tou. / Amore amore ci m'hai fattu
fare, / te quinnicianni m'hai fatta 'mpaccire. / Te
quinnicianni m'hai fatta 'mpaccire / te mamma e tata m'hai
fatta scurdare. / Quantu t'amau amau lu core meu /
mo’
nu te ama chiui, se n'ha pentitu (1).
Va da sé
che questa non è l’unica versione esistente.
Altrove chi canta (a volte si tratta di un uomo, a volte di una
donna) si chiede, per esempio,
A du te pizzicau ca nu
se scerne? / Sutta lu giru giru te la suttana (2).
In
una versione più completa si chiama in causa un
uccelletto come messaggero d’amore (3):
Oh rondine
ci rondini lu mare, / vieni chiù quai te ticu ddoi
parole. / Cu te la tiru na pinna te l'ale, /
na lettera ni
fazzu allu miu amore. / Portala bella bella ssutta all'ale / cu
nu te scappa ddhu scrittu t'amore. / E quandu rivi addhai nu ni
la ddare / se nu te duna lu sinceru amore (4).
La pizzica pugliese.
Nel semplice testo sono
presenti alcuni dei temi che rendono utile per una filosofia
della danza la pizzica pugliese: a cominciare dal tema della
danza in se stessa, tanto connaturata in alcune persone da
riuscire implicita nel più normale dei movimenti
(l’andatura) al tema dell’amore che può
diventare possessione oltre che ossessione. C’è
anche ovviamente l’argomento principale, il tarantismo (e
il suo collegamento con la sessualità), che reca in sé
importantissimi riferimenti culturali (alla Grecia in primis),
religiosi (esorcismo musicale e sciamanesimo), medici (sintomi
isterici), musicali (trance dance, danza terapia), scientifici
(etnografia, antropologia, filologia) e via dicendo. Di tutto
ciò cercheremo di occuparci brevemente nel prosieguo, a
dimostrazione del fatto che ciò che distingue la
filosofia della danza dalle altre discipline teoriche che la
concernono è che queste ultime si appagano, in generale,
del significato dei fenomeni che investigano, mentre la
filosofia è per vocazione costantemente alla ricerca del
senso che tali significati tutti collega. Perché le
scienze in quanto tali sono precipuamente analitiche, mentre la
filosofia, in quanto pensiero o logos, è onnicomprensiva
e quindi sintetica. Entrambe però sono indispensabili al
progredire l’una dell’altra e, insieme, a quello
della conoscenza. Posso comunque già anticipare che il
senso della danza in generale mi sembra la narrazione. L’uomo
attraverso lo strumento corpo narra se stesso e la propria
avventura nella materia. Credo infatti che, su questa base, si
possano distinguere quattro grandi categorie di danze:
1.
d’amore o di corteggiamento
2. di guerra
3. di
morte
4. sacre, comprendenti sia le danze magiche sia le
spirituali.
LE DANZE D’AMORE
Nel primo gruppo
vanno compresi alcuni aspetti della pizzica. Dal sito
itcolivetti. le. it si ottengono significative precisazioni
sulla “Pizzica de Core”:
E' una danza di
corteggiamento, un’ espressione caratteristica della
tradizione popolare salentina. I due ballerini durante la danza
sono molto vicini ma non si toccano mai; tutto si svolge con
scambi di sguardi provocatori, diversi movimenti che dimostrano
il corteggiamento dell’uomo, mentre la donna corteggiata
sfugge se questi prova ad avvicinarsi. Una particolarità
di questa danza è il fazzoletto rosso che la donna
sventola in modo provocatorio, con il quale sceglie volta per
volta il suo compagno di ballo finché non lo dona alla
persona che è stata in grado di rapirle il
cuore.
Normalmente alla danza e alla musica nella
Pizzica de Core si accompagna un testo, non di rado in lingua
grika (5):
Agàpison, a’tteli n’agapisi,
/ mia chiatereddan ìcosi χronò / an ene
icosipente mi tti telisi / pesti ti en’diammeno to cerò.
/ A’tte’nna piai to rodo na mirisi / piatto motti
en’ìmiso aniftò. / To rodo toa
en’desiderao, / motti ‘en ene niftò ce
spampanao (6).
Un ulteriore elemento della pizzica
d’amore è l’uso del fazzoletto (dal Sito
Indiano Salentino):
Un tempo il ballo prevedeva anche
l'invito con la consegna del fazzoletto da parte della persona
che iniziava il ballo verso quella che con cui desiderava
ballare; di questo uso c'è ancora traccia nella memoria
degli anziani salentini. Lo stesso meccanismo di invito
avveniva in tutta la regione e ancora oggi avviene in alcune
aree della Basilicata e della Campania con apposito canto
d'invito codificato. Nella pizzica si balla in coppia, non
necessariamente formata da individui dello stesso sesso. A
differenza di quanto molti immaginano, la pizzica tra uomo e
donna non era affatto una danza di corteggiamento, o almeno non
esclusivamente. Essa infatti si ballava soprattutto in
occasioni private e familiari, ed in tali occasioni era molto
probabile che a danzare si trovassero parenti anche molto
stretti, o individui tra i quali intercorreva una grande
differenza d'età. Così il ballo tra un fratello
ed una sorella poteva diventare occasione di divertimento e
scherzo, come quello tra un anziano e la sua nipotina poteva
diventare un momento di apprendimento da parte della seconda
dei ruoli, dei passi e dei codici tipici della danza. Tra due
uomini invece spesso si creava più tensione, o meglio,
competizione, ed il ballo diventava allora un momento di sfida
in cui ci si confrontava, esibendole, su doti quali agilità,
creatività e prestanza fisica. Un esempio di danza tra
due uomini è riscontrabile nella tradizione ostunese,
dove è molto facile vedere due uomini ballare insieme ed
in cui uno dei due uomini (o a turno), si prende gioco
dell'altro riproducendo passi e pose comici o caratteristici
della danza femminile. Pochi e semplici sono i "passi
base" tipici di questa danza, in cui più che i
passi veri e propri sono le "intenzioni" e le
emozioni dei ballerini (e naturalmente la loro capacità
di farle emergere) a rendere magico ed affascinante il momento
coreutico. Sui passi base poi - costituiti da un corpus di
saltelli, su se stessi o in movimento, su due tempi o terzinati
- i ballerini ci ricamano, anche inventandoli
estemporaneamente, una gran varietà di passi e
movimenti, che fanno oscillare la danza tra fasi di calma, di
studio dell'altro o attesa a fasi più frenetiche
caratterizzate da forti battiti dei piedi sul suolo (più
tipici degli uomini), veloci e vorticosi giri su se stessi
(caratteristici delle donne), brevi inseguimenti,
allontanamenti e repentini avvicinamenti e incroci tra i due
ballerini. Il tutto condito dall'euforia dei suoni e delle
grida che si scatenano dalla ronda, ossia quel tipico cerchio,
composto da musicisti, aspiranti ballerini o curiosi, che si
forma spontaneamente dando vita al momento del ballo.
NOTE
1 “Pizzicarella
mia, quando tu cammini sembra che danzi. Dal momento che ti ho
vista ti ho subito ammirata. Ti ho fatto un segno speciale in
mezzo agli occhi, che tu non possa mai scordarti di chi ami.
Amore, amore, che mi hai fatto fare? Avevo quindici anni quando
mi facesti impazzire, mi hai fatto dimenticare madre e padre.
Quanto ti ha amato il mio cuore! Ora non ti ama più, se
n’è pentito.
2 “Dove ti pizzicò,
che non si vede? Sotto il girovita della sottana”.
3
Il tema dell’animale messaggero si ritrova nella canzone
napoletana Lo Cardillo (1849): Sto criscenno no bello cardillo,
/ quanta cose ca ll'aggi''a 'mpará: / ha da ire da
chisto e da chillo, / li 'mmasciate isso mm'ha da porta’!
/ Siente cca bello mio: llòco 'nnante / nc'è na
casa, na nenna nce sta. / Tu la vide ca nun è distante:
/ chella nénna haje da ire a trova’. / / Si la
truove ca stace dormenno, / pe' na fata, gué, non ‘a
pigliá. / No rommore non fa’ co' li ppenne, / gué,
cardi', tu ll'aviss’ a sceta’. / Si affacciata po'
sta a lo barcone, / pe' na rosa ll'aviss''a piglia’. /
Gué, cardi', vi' ca llá tu te stuone. / Va,
vattenne cardi', nn'addura’. / / Si la truove ca face
ll'ammore, / 'sto cortiello annascunnete cca. / 'Nficcancillo
deritto a lo core / e lo sango tu mm'haje da porta’. / Ma
si penza,vatte' chiano chiano, / zitto zitto te nce haje da
azzecca’, / si afferra’ po' te vo' co' la mano, /
priesto 'mpietto tu ll'haje da zompa’. / / Si te vasa o
t'afferra cianciosa, / / tanno tu ll'haje da dire accossí:
/ "Lo patrone pe' te non reposa... / poveriello, pecché
ha da mori’?" / T'accarezza, te vasa...ah, viato / /
cchiù de me tu si' certo cardi'. / Si co' tico cagnarme
mm'è dato, / voglio, doppo, davvero mori’. (“Il
Cardellino. Sto allevando un bel cardellino. Quante cose gli
voglio insegnare. Deve andare da questo e da quello a portare i
miei messaggi. Senti, mio caro, un po’ più in là
c’è una casa, ci abita una ragazza. Non è
lontano, come vedi. Tu la devi andare a trovare. Se la trovi
addormentata, potresti prenderla per una fata. Bada di non far
rumore con le tue penne, potresti svegliarla. Se invece è
affacciata al balcone, potresti scambiarla per una rosa.
Attento, cardellino, a non rimanere stordito dal suo profumo.
Vattene in fretta, non odorarla. Se la trovi che fa l’amore
con un altro, nasconditi qua questo coltello, glielo devi
ficcare nel cuore e poi portarmi il suo sangue. Ma se la trovi
pensierosa, avvicinati a lei zitto zitto e se ti vuol afferrare
con la mano tu velocemente balzale in seno. Se ti bacia o ti
prende con grazia, allora devi dirle così: Il mio
padrone a causa tua non trova pace. Poverino, perché
deve morire?. Se lei ti accarezza e ti bacia … Ah
cardellino, certo sei più fortunato di me. Se mi fosse
concesso di essere al tuo posto, veramente, dopo, vorrei
morire”).
4 “O rondine che voli sul mare, vieni
più vicino che voglio dirti due parole. Voglio tirarti
via una penna dall'ala, ci scriverò una lettera al mio
amore. Portala per bene sotto le ali, che non ti scappi quello
scritto d'amore. E quando arrivi da lei non glielo dare se non
ti dona il sincero amore”.
5 Da Wikipedia. it: La
minoranza linguistica greca d'Italia, così come
riconosciuta dallo Stato, è composta dalle due isole
linguistiche della Bovesìa in Calabria e della Grecia
Salentina in Puglia, che di fatto costituiscono la totalità
delle aree ellenofone esistenti in Italia. Il grecanico o
griko, idioma praticato in queste comunità, è un
dialetto (o gruppo di dialetti) di tipo neo-greco residuato
probabilmente di una più ampia e continua area
linguistica ellenofona esistita anticamente nella parte
costiera della Magna Grecia. I greci odierni chiamano la lingua
Katoitaliótika (Greco: Κατωιταλιώτικα,
"Italiano meridionale") oppure, in riferimento al
solo dialetto della Bovesìa, calabrese, anche se
quest'ultimo può riferirsi eufemisticamente al pidgin
(idioma derivante dalla mescolanza di lingue di popolazioni
differenti, venute a contatto a seguito di migrazioni,
colonizzazioni, relazioni commerciali) greco-italiano pure
esistente nell'area. Il numero complessivo di coloro che ancora
parlano la lingua grika in Italia è stimato intorno alle
20.000 unità.
6 “Se vuoi amare, ama una
fanciulla di venti anni, se è di venticinque non la
volere, dille che è passato il tempo. Se vuoi prendere
la rosa profumata prendila quando è mezza aperta. Allora
la rosa è desiderabile, non quando è aperta e
spampanata”.
LA DANZA DI PSICHE 2
Il Ballo Tondo della Sardegna.
Come si è visto, non
tutti gli studiosi concordano sul fatto che la pizzica sia una
danza di corteggiamento. Personalmente ritengo invece che
proprio questo sia il carattere che più apparenta le
diverse tarantelle dell’Italia Meridionale e, in
generale, dell’area mediterranea. Per esempio, dal Sito
Sumasu. it ricaviamo un breve ma illuminante accenno relativo
ai balli sardi che
di origine antichissima, possono essere
distinti in due gruppi: rituali e di corteggiamento. I balli
rituali, che mantennero il loro valore anche in era Cristiana
fino al XVI, hanno come figura principale il cerchio ruotante.
Le danze di corteggiamento si ballano in coppia e talvolta da
un uomo accompagnato da due ballerine. I balli rituali
presuppongono una partecipazione corale ed un passo di danza
uguale per tutti; nelle danze di corteggiamento, invece, è
il ballerino che esegue il passo più difficile. Le due
aree culturali tradizionali dell'isola (la pastorale nel
centro-nord e la contadina nel sud) ripropongono unitariamente
il ballo rituale in cerchio ("su ballu tundu") con
l'unica differenza nel passo; tuttavia esse si distinguono
nettamente nelle danze di corteggiamento. Nelle zone pastorali
il passo è decisamente saltellato; nell'area agricola ci
si basa su passetti brevi e saltellati.
Ancora più
pertinente alla presente ricerca, il Sito grecanico I Fonì
Dikìma (articolo di Pasquale Casile), in cui troviamo
notizie sulla viddhanèddha, ballo caratteristico della
provincia di Reggio Calabria, lungamente a torto assimilato
alla tarantella reggina, su cui si è scritto pochissimo
e, soprattutto, senza che mai all’indagine musicologica
della sua struttura ritmicomelodica e strumentale, facesse
seguito quella storica, linguistica, letteraria e
antropologica, volta a stabilire con minore approssimazione la
sua ascendenza. A volere scorrere in rapida sequenza le
principali informazioni già note agli esperti del
settore, potremmo dire che la viddhanèddha si configuri
come una danza circolare, a ritmo 6/8, a suddivisione ternaria,
con due accenti ritmici di 3/8 ciascuno, intervallati da brevi
pause. Ne sostengono lo schema ritmicomelodico due soli
strumenti: la ceramèddha, erede del doppio aulos (oggi
purtroppo quasi del tutto soppiantata dall’organetto
diatonico), e il tamburèddhu, moderno continuatore del
tympanon – strumenti entrambi di derivazione magnogreca
(…) Entriamo nella specifico, iniziando, come siamo
soliti fare, dall’analisi etimologica. Il termine
viddhanèddha, proveniente dal calabrese viddhàna,
“popolana”, qui in composizione col suffisso
vezzeggiativo –èddha è da intendersi come
“giovinetta”, “fanciulla”, “ragazza”.
Protagonista di questo ballo pertanto è una ragazza che
con grazia ed eleganza danza all’interno della rota, lo
spazio coreutico di forma circolare che viene delimitato da
tutti i partecipanti al ballo (suonatori inclusi). In grecanico
infatti, il verbo chorègguo, “ballare”,
equivale all’espressione dialettale fari rota, cioè,
istituire un choròs, parola che designa a un tempo, come
nell’antichità, sia il gruppo di danzatori che il
luogo dove si danza (…) La ragazza danza in coppia con
un altro giovane, ragion per cui, tra gli studiosi della
tarantella “calabrese” e reggina, è invalsa
l’errata opinione che la viddhanèddha sia una
danza di corteggiamento. Le cose non stanno affatto così,
e lo dimostreremo. Secondo noi, predominante nella viddhanèddha
non è il motivo del corteggiamento, ma quello
dell’inseguimento. Basta guardare la coreografia del
ballo per rendersene conto: la ragazza cerca costantemente di
sottrarsi all’altro danzatore, che l’insegue
appressandosi ad essa più che può, fino al limite
del contatto fisico, che è assai raro e non va mai oltre
la presa delle mani. Durante il ballo il choròs rivolge
ai due ragazzi la seguente frase d’incitamento: balla lu
palumbu e la palumba, ossia stanno danzando i due colombi. In
realtà però, sulla scena non v’è che
un’unica colomba, poiché il ragazzo si è
solo temporaneamente mimetizzato in un colombo che, presto, si
rivelerà essere un infallibile uccello di rapina. La
strategia della cattura prevede infatti che il giovane, al
momento a lui più favorevole, usi il micidiale passu
‘ill’adornu che è un passo ad imitazione del
volo del falco “quando questi – scrive il Polimeri
– cerca di nnopiare la preda (affascinarla per poi
piombarle addosso e ghermirla)”. La cattura è a
questo punto inevitabile e alla ragazza non resta che lasciarsi
– volontariamente – carpire e sfilare via dal collo
il tipico foulard, detto muccaturi. La ragazza è così
nzingata, “segnata”, e assegnata pubblicamente al
giovane quale prossima sua sposa e nessuno nella comunità
può più ignorare il fatto dell’avvenuta
“cattura”. Tutto ciò accade da millenni
nella Calabria greca: la “danza della colomba”,
come noi abbiamo definito la viddhanèddha, non è
che un rito di passaggio antichissimo, riguardante
l’iniziazione femminile e la cui finalità era –
e in alcuni casi ancora è – l’assegnazione
delle spose all’interno della comunità. Orbene, si
palesa in tal modo anche il simbolismo della colomba, sin dalla
postura che la ragazza assume, tenendo le braccia sui fianchi
con le palme delle mani all’esterno, a mo’ di ali.
Il “ballo della colomba” nasce da una mitologia del
quotidiano, dove ogni gesto è parte di un mitologema già
codificato dall’uso rituale del linguaggio corporeo ed è
quindi contemporaneamente espressione mimico-gestuale e sacra
teofania. Nell’antica Locri le fanciulle/colombe
appartengono ad una categoria speciale di animali sacri
affidati alla custodia di Ferefassa, Persefone-colomba. A Locri
infatti, Persefone non è una dea tra tante, ma la
“Signora” della città. Sappiamo inoltre
dalle fonti archeologiche che Persefone anche figurativamente è
rappresentata con in mano una fassa, la colomba selvatica,
simbolo di fedeltà. Nella viddhanèddha si cela la
Kore locrese, la ragazza/figlia, che deve divenire gyne,
donna/moglie. Nel rito della “danza della colomba”
si compie attraverso la “cattura” anche il
passaggio dell’autorità genitoriale: la
ragazza/colomba ormai appartiene al ragazzo/falco, dallo stato
selvatico è passata allo stato civile e insieme al suo
compagno, rinascendo, riceve una nuova identità,
divenendo parte essenziale della comunità. Lo rivela
questo canto di Paracorio (frazione di Delia Nova), col quale
concludiamo: E lu me beni si ndi jiu a la caccia, / e jiu a lu
chianu di Santa Maria. / Nci mbatti na palumba janca e destra,
/ senza ferita lu sangu currìa. / S’affaccia ‘na
signura a la finestra: / - “Cu mi ha ferutu la palumba
mia? – / - “Signura, la palumba non è
vostra, / - l’aju purtata di na longa via - / Cu’
vinu jancu nci lavai la testa, / Cu zuccaru e cannella la
pascia (1). Il mio bene se n’è andato a caccia, è
andato alla piana di Santa Maria. Si è imbattuto in una
bella colomba bianca, il sangue scorreva senza alcuna ferita.
Una signora si affaccia alla finestra: Chi ha ferito la mia
colomba? – Signora, la colomba non è vostra, l’ho
portata per una lunga via. Le ho lavato il capo con il vino
bianco, l’ho nutrita con zucchero e cannella.
Anche da questo aperto
riferimento al mondo animale si ricava la convinzione che le
danze come la pizzica provengano da comportamenti umani
vertiginosamente antichi, le cui radici primarie sono da
ricercare nell’etologia animale. Non ho la possibilità
di aprire qui una parentesi sul corteggiamento nelle diverse
specie, che ci porterebbe verso orizzonti troppo vasti e più
pertinenti, forse, alla Filosofia della Scienza che a quella
della Danza. Basterà accennare alla vera e propria danza
d’amore praticata dalle gru, anche perché essa è
stata accostata alla cultura protogreca le cui influenze
continuano ad esercitarsi sull’attuale folklore del
nostro Sud.
Nel Sito Animali nel Mondo troviamo la
descrizione zoologica della gru:
nome scientifico: Grus
grus
taglia: 90-150 cm di lunghezza
peso: 5 kg circa
I
gruidi sono uccelli molto caratteristici con zampe lunghe e
collo lanciato. In volo (lo stormo si sposta con la tipica
formazione a V), le gru hanno testa e collo protesi in avanti,
al contrario degli aironi (ardeidi) che volano con il collo
incurvato a S, ed emettono il tipico verso strombettante "kru"
o " kri-kru". Le gru si presentano con un piumaggio
grigio, la testa è bianca e nera con una macchia rossa
sul vertice (2). Il lungo becco è circondato da un
piumaggio nero che si allunga verso la gola, sulla nuca e sulla
fronte; lateralmente agli occhi si prolunga una mascherina
bianca. Le penne sopra la coda sono allungate e cascanti e
terminano con un ciuffo dalle estremità più
scure. I giovani si riconoscono per l'assenza di macchie scure
sulla testa e per la coda meno "cespugliosa". La gru,
al di fuori del periodo riproduttivo, manifesta delle abitudini
gregarie molto intense, costituendo dei gruppi numerosi e
grazie ai continui richiami sonori tutti i componenti si
mantengono in contatto. Trascorrono l'inverno in luoghi
tradizionali dell'Europa meridionale e nel Nord Africa. La Gru
nidifica su di un vasto areale che va dalla penisola scandinava
alla Siberia orientale, ma in passato esistevano aree
riproduttive anche nell’Europa centro-meridionale, come
ad esempio il Delta del Po. Nei quartieri di svernamento le gru
si cibano prevalentemente di vegetali come bacche, cereali,
patate e ghiande. Nei luoghi di riproduzione, come distese
paludose e acquitrini, si nutrono anche di insetti e pesciolini
(3). Le coppie sono stabili nel tempo e fedeli ai territori di
nidificazione. Il nido, una piattaforma di materiale vegetale,
viene costruito sul terreno al margine di laghi o paludi,
preferibilmente in aree alberate e indisturbate. Depone di
solito due uova che verranno incubate sia dal maschio che dalla
femmina. Entrambi i genitori, inoltre, partecipano allo
svezzamento dei piccoli.
Il comportamento delle gru si
modifica però sostanzialmente durante la stagione degli
amori, allorché si abbandonano ad elaborate e chiassose
forme di corteggiamento comunemente chiamate danze (4). Ciò
sembra in contraddizione con le abitudini monogamiche della
specie, ma gli studi più recenti hanno dimostrato che le
gru, la cui vita dura in media quattro o cinque decadi, non
raramente cambiano partner. La loro elegante bellezza e le
spettacolari abitudini amorose hanno procurato alle gru una
grande fama nel mondo antico. In Giappone le donne dell’etnia
Ainu eseguivano ancora all’inizio del ‘900 una
danza ispirata alle gru, mentre in Korea qualcosa di analogo è
tuttora in uso nel Tempio buddhista di Tongdosa. Nell’Arabia
preislamica si venerava una Trinità femminile composta
da Allat, Uzza e Manah, che erano chiamate le Tre Gru. In
Grecia l’uccello (detto Γερανος,
Gheranos) rientrava nel novero degli animali divinatori. Un
esempio fondamentale della mitologia riguardante le gru può
essere visualizzato nel Vaso François, custodito al
Museo Archeologico di Firenze. Vi si trova dipinta la scena di
un gruppo di giovani, maschi e femmine, che danzano presso una
nave: sono i ragazzi ateniesi scampati al Minotauro che
festeggiano la liberazione dalla morte nel labirinto cretese.
Nella pittura si vede anche Teseo, l’eroe vincitore del
mostro, che suona la lira mentre i fanciulli danzano un dietro
l’altro. Gli abitanti di Delo, racconta Plutarco,
ripetevano ancora quella danza e la chiamavano géranos,
la “danza delle gru”, perché l’andirivieni
dei giovani che, tenendosi per mano, imitavano il cammino
compiuto per entrare e riuscire dal labirinto, somigliava ai
saltelli sinuosi e al volo di gruppo di questi uccelli
migratori.
A quanto sembra i ragazzi salvati da Teseo
eseguirono la danza mentre ritornavano ad Atene: essa dunque
rappresentava la vittoria sul Labirinto e non è la sola
cerimonia coreutica che si collega al mistico percorso
spiraliforme. Nel Sito Il Tempio di Pera. it viene citato il
mitologo Robert Graves che nel suo capolavoro La Dea Bianca
parla di una danza pasquale del labirinto che sopravvive ancora
in Gran Bretagna, una danza "eseguita nei villaggi rurali:
i labirinti vengono chiamati Troy Town in Inghilterra"-
dice l'autore-"e Caer-droia in Galles. Tali danze furono
così chiamate probabilmente dai Romani, che conoscevano
il "gioco di Troia", una danza labirintica dell'Asia
Minore eseguita dai giovani patrizi di Roma nei primi anni
dell'Impero in memoria della loro origine troiana; ma Plinio
dice che la danzavano anche i bambini latini. A Delo era
chiamata "la danza del corvo" e si diceva celebrasse
la fuga di Teseo dal labirinto. La danza del labirinto sembra
essere giunta in Britannia dal Mediterraneo orientale con gli
invasori neolitici del III millennio a.C., dal momento che in
Scandinavia e nella Russia nord-orientale si trovano rozzi
labirinti di pietra dello stesso tipo di quelli inglesi. Su una
lastra di pietra , presso Bosinney, in Cornovaglia, ne è
scolpito uno su un blocco di granito rinvenuto nelle Wicklow
Hills (...). Anche questi labirinti si conformano al medesimo
modello: il labirinto di Dedalo delle monete cretesi."
E le nostre amiche gru? No,
Graves non si dimentica di loro:
Più avanti,
Graves riprende l'argomento parlando delle gru, uccelli sacri
ad Atena: "Plutarco parla di una "danza delle gru"
introdotto a Delo da Teseo, della quale però si sa
soltanto che veniva eseguita intorno a un altare sormontato da
corna e che rappresentava la spirale doppia del Labirinto. La
mia ipotesi è che imitasse la danza di corteggiamento
delle gru e che ogni movimento consistesse di nove passi e un
salto" Inoltre, si parla di una cosa simile anche nel
capitolo "Il dio dal piede di toro", in cui Graves
cita la pernice, "un uccello che migra in primavera, sacro
alla dea dell'amore a causa della sua fama di lascivia ( ...) e
la danza con ogni probabilità mimava la danza d'amore
che il maschio esegue .Si tratta di una danza di guerra
eseguita dinanzi ad un pubblico di femmine: i maschi svolazzano
in cerchio con andatura claudicante, uno sperone sempre pronto
a colpire la testa di un rivale"; l'autore dice anche che
le pernici si concentrano molto in questa danza tanto da non
rendersi conto di nulla. Continua Graves: " Sembra dunque
che nel Pesah (tipo di danza rituale) il culto della pernice
sia stato soppiantato da quello del toro e che il Minotauro cui
si sacrificavano giovani di ambo i sessi (provenienti da Atene
e da altri luoghi) avesse un tempo rappresentato la pernice che
attirava le sue vittime al centro del labirinto nella boscaglia
dove esse dovevano eseguire la loro danza di morte. Il
Minotauro era il centro di una rappresentazione rituale
inizialmente in onore della dea-Luna, la lasciva pernice
femmina e che in certe parti di Creta era la madre e l'amante
dell'eroe solare Talo.La danza della pernice maschio
claudicante diventò così una cerimonia in onore
delle Dea-Luna Pasifae (...)." E come ci dice Graves,
prove su questo tipo di danza si trovano anche in Omero e in
Luciano ( in "Sulla danza" ).
Robert Graves
non è stato l’unico antropologo a provare
interesse per le danze d’amore nel mondo animale. Nel
Sito sopra nominato si cita anche Brian Bates e il suo libro La
Sapienza di Avalon,
dove parla di una danza simile (
riservata agli uomini ma sorvegliata dalle donne in quanto Dee
del labirinto ) che fino a poco tempo fa esisteva ancora presso
una società tribale dell'età della pietra, la
cultura Malekulan (5), in cui, durante l'iniziazione
sciamanica, l'aspirante sciamano doveva dimostrare di conoscere
il modo prescritto per entrare nella caverna dove gli sarebbero
stati insegnati i segreti. Lo sciamano in trance avrebbe dovuto
raggiungere la caverna vicino al mare, grazie agli spiriti dei
ragni; all'ingresso della caverna, Le-Hev- Hev, la grande Dea
ragno ( filatrice del destino e "madre di rinascita"
) avrebbe tracciato il disegno del labirinto e quando
l'iniziando fosse giunto, ne avrebbe cancellato una metà:
l'uomo avrebbe dovuto dimostrare di saperlo completare. Solo a
quel punto avrebbe appreso i misteri e sarebbe rinato
sapiente.
NOTE
1 “Il mio bene se n’è
andato a caccia, è andato alla piana di Santa Maria. Si
è imbattuto in una bella colomba bianca, il sangue
scorreva senza alcuna ferita. Una signora si affaccia alla
finestra: Chi ha ferito la mia colomba? – Signora, la
colomba non è vostra, l’ho portata per una lunga
via. Le ho lavato il capo con il vino bianco, l’ho
nutrita con zucchero e cannella”.
2 La descrizione non
riguarda tutte le specie.
3 E non disdegnano i piccoli
roditori.
4 Da Wikipedia. org.
5 Dal Sito Estate
Incantata. it.
6 Isole Ebridi, Scozia.
LA DANZA DI PSICHE 3
DANZE DI GUERRA
Nel mondo animale le leggi di
natura vogliono che all’amore – alla riproduzione –
abbiano accesso gli individui più adatti alla
prosecuzione della specie. Non desta dunque meraviglia
riscontrare che alle danze di corteggiamento si accompagnano
spesso quelle di lotta e di guerra, vista quest’ultima,
etologicamente, come una difesa organizzata del territorio
comunitario. Se risulta difficile ritrovare vere e proprie
danze di guerra nel mondo animale, quelle di lotta sono invece
abbastanza frequenti. Ricordiamo il “balletto dei
cammelli” (1) e il micidiale balletto dei mustelidi,
piccoli e feroci predatori come i furetti e gli ermellini.
Molto diverse appaiono per
contro le danze di guerra vere e proprie, di cui si trovano
tracce più o meno ovunque: nei Paesi Arabi, in Russia e
nel resto d’Europa, in Africa, nelle Americhe, in Oceania
e nel Medio e Lontano Oriente. In particolare va citata la Haka
Maori, divenuta famosa perché praticata dalla squadra di
rugby della Nuova Zelanda prima di ogni incontro sportivo,
anche se bisogna dire che secondo alcuni esperti si tratta
piuttosto di una danza sacra perché nel testo che
accompagna i movimenti – a dire il vero piuttosto
intimidatori – si invoca l’aiuto divino per poter
affrontare con coraggio e vittoriosamente gli avversari. Altre
importanti danze di guerra sono quelle dei Nativi del Nord
America, rese celebri dai film western, e la Capoeira
brasiliana, nata tra gli schiavi di origine africana e ora
divenuta un’arte molto spettacolare in cui si fondono
tattiche di combattimento, musica ed equilibrismi da togliere
il fiato.
Un caso a se stante di danza di guerra è
quella delle spade, che attraversa l’intera storia
mondiale, nel tempo e nello spazio, in certi casi anche in
versione femminile. Si tratta comunque di battaglie simulate,
di cui si conoscono precedenti illustri nella classicità,
come la pirrica in Grecia e la saltatio a Roma.
Quanto è
stato detto finora ha dimostrato soprattutto la connessione
profonda che sussiste tra le danze popolari e i comportamenti
amorosi e sociali sia della specie umana sia di quelle animali,
ma siccome amore e morte nella psiche sono sempre strettamente
associati era giusto aspettarsi di ritrovare accanto alle danze
di corteggiamento e di guerra le danze di morte e addirittura
le danze della morte stessa. Le prime (funebri o funerarie)
sono bene attestate nel passato, lontano ma anche recente, al
punto che se ne incontrano tuttora interessanti tracce, per
esempio in Italia dove
nelle valli Staffora, Curone e
Borbera, vale a dire sui versanti pavese e alessandrino delle
Quattro Province, la "Povera donna" è un ballo
arcaico tuttora frequentemente eseguito in occasione delle
numerose feste tradizionali "da piffero" che si
svolgono nei paesi. Tuttavia, solo a Cegni, nell'alta val
Staffora, il ballo ha conservato la sua cornice rituale di
carattere carnevalesco. Il 16 agosto, il ballo viene eseguito
durante il cosiddetto "Carnevale bianco", in un
contesto rappresentativo e folcloristico, mentre, da oltre
vent'anni, ha recuperato una dimensione funzionale attraverso
la sua ricollocazione in periodo invernale (il sabato grasso),
per iniziativa delle nuove generazioni di suonatori e ballerini
e con significativo seguito da parte degli abitanti di Cegni
come pure di appassionati e cultori della tradizione locale
provenienti da altri luoghi. Il ballo della povera donna si
colloca sull'orizzonte dei riti funebri pre-cristiani confluiti
nella cultura carnevalesca, e presenta significative analogie
con analoghe raffigurazioni coreutiche tuttora viventi. In
Liguria, a Taggia sulla riviera di Ponente, nel mese di luglio
in occasione della festa della Maddalena, u mas-ciu e a Lena
inscenano il Ballo della morte dei Maddalenanti. Nella
bolognese val Savena, il violino di Melchiade Benni suscitava
il Barabein, come lo Scuciòl ballo di rinascita
carnevalesca. Nucleo coreutico e simbolico è, in
entrambi i casi, una danza di corteggiamento, la morte
apparente della maschera maschile, nel caso del Barabein,
femminile nel caso del Ballo della Morte, con il conseguente
lamento del compagno attorno alla figura inerte del defunto
coniuge, lamento accompagnato da una gestualità ambigua,
tra il compianto e lo scherno; segue il repentino ritorno in
vita del finto morto, ed il prosieguo della danza interrotta.
Ancora, in tempo di carnevale, ballano il viei e la vieio della
beò di Blins (Bellino), in provincia di Cuneo, e qui
sarà la vecchia a stramazzare al suolo interrompendo la
danza con il vecchio patriarca della famiglia carnevalesca, per
poi tornare in vita dopo l'intervento di un grottesco medico, e
riprendere l'interrotta danza suggellando il passaggio
armonizzante di barriere di legno frapposte al cammino della
comunità. Nella trentina valle dei Mòcheni, etnìa
germanica, il bècio e la bècia intervallano il
loro percorso di visita augurale alle case del paese con la
danza che vede le due maschere alternarsi nell'inscenare morte
e resurrezione, ogni volta lasciando scaturire dalle vesti un
grottesco testamento, topos tipicamente carnevalesco (2).
Clusone, Danza Macabra.
Un altro tipo di ballo
collegato alla morte è la Danza Macabra, un tema
iconografico tardo medievale nel quale è rappresentata
una danza fra uomini e scheletri.
Gli scheletri sono una
personificazione della morte, mentre gli uomini sono
solitamente abbigliati in modo da rappresentare le diverse
categorie della società dell'epoca, dai personaggi più
umili, come contadini e artigiani, ai più potenti, come
l'imperatore, il papa, principi e prelati.
Il soggetto ha la
funzione di memento mori e, rispetto ai soggetti apocalittici
più diffusi nell'alto medioevo, come le rappresentazioni
del giudizio universale, esprime una visione più
individualistica della morte e talvolta anche una certa ironia
nei confronti delle gerarchie sociali dell'epoca. È
importante notare che con il tempo la figura della Morte come
agente della volontà divina scompaia, lasciando
iconograficamente soltanto i cadaveri, simboli del conturbante
richiamo dell'aldilà, laicizzando l'ideale della morte
stessa. Questa parentesi però dura per poco tempo (…)
La
diffusione del tema, assieme ad un certo compiacimento nella
rappresentazione di scheletri e di morti, è stata messa
in relazione con la grande peste del 1348 (…) I dipinti
dedicati a questo tema sono visitabili in varie località
d'Europa: Italia, Istria, Francia, ecc (3).
La morte ci
introduce nel prossimo settore, quello delle danze magiche e
sacre. Riflettendo sul fatto che la magia è il
comportamento tipicamente umano con cui si cerca di influire
non razionalmente sulla realtà, non stupisce che tanto
spesso anche la danza abbia tentato tale strada, intersecando
quella – più nobile e (forse) più
disinteressata del sacro.
Segnaliamo come danza più
propriamente magica la apotropaica contro i malefici, mentre la
sciamanica appare più complessa e diversificata data la
grande quantità di pratiche cui era (ed è) tenuto
lo sciamano per la sua funzione di mediatore tra il mondo degli
uomini e quello degli spiriti. Sono quindi ovvi i punti di
contatto con la danza sacra che da sola ha offerto e tuttora
offre argomenti sufficienti a riempiere migliaia di volumi.
Come disciplina antropologica, infatti, dà spazio allo
studio dell’uomo in quanto microcosmo inserito nel
macrocosmo regolato dalle leggi del Kosmos e insidiato da
quelle del Chaos. In tale grandiosa dinamica la danza,
soprattutto quando ricorre scientemente alle figure simboliche
della geometria sacra, diventa un intervento diretto con cui
l’uomo imita e sostiene il bene contro il male. Non per
caso le mitologie di tutto il mondo possiedono un proprio dio
della danza, spesso affiancato da divinità comprimarie
ma anche inteso come Entità somma, ciò che si
verifica ad esempio con Shiva, che danzando crea e distrugge
gli universi. Nell’Induismo Shiva è conosciuto
anche come Nataraja, il Signore della Danza, anche se in realtà
la sua figura risulta, anche ad un’analisi superficiale,
di gran lunga più complessa, come viene espresso assai
bene nel Sito Vedanta. it:
Egli è insieme il
distruttore e il restauratore, il primo degli asceti e il
simbolo della sfrenata sensualità, è un benevolo
pastore di anime e un pericoloso tentatore, è
l'infanticida che uccide il figlio che la moglie Parvati ha
creato dagli umori del proprio corpo, affinché ci sia
qualcuno che tenga lontani i disturbatori, ma è anche
quello che lo risuscita, una volta compreso l'errore,
donandogli al testa di elefante e così la sapienza.
Alcuni studiosi hanno visto nella sua figura la tipica tendenza
nell'Induismo di racchiudere in un'unica figura ambigua delle
qualità complementari.
Naturalmente una divinità
così multiforme non poteva non essere rappresentata che
da una altrettanto importante varietà di simboli:
La
cavalcatura di Shiva, nonché l'animale a lui dedicato, è
il toro, Nandi. In ogni tempio di Shiva, di fronte al santuario
principale, esiste una scultura di Nandi. Di solito nei templi
e negli altari domestici, Shiva è adorato nella forma
del lingam. A seconda del culto in cui viene rappresentato
Shiva, nella sculture e nelle immagini, è di color
bianco o del biancastro colore delle ceneri, con il collo blu
(perché bevve il veleno di Vasuki per evitare la
distruzione dell'umanità). I suoi capelli sono
arrotolati e raccolti (jatamakuta) sulla somità del
capo, adornati con la luna crescente e il fiume Gange. Ha
quattro o cinque o tre occhi, con il terzo a simboleggiare la
conoscenza interiore, ma capace di distruggere col fuoco ogni
cosa quando rivolge o sguardo verso l'esterno. Indossa una
ghirlanda di crani umani e un serpente circonda il suo collo.
Ha due o quattro mani che impugnano un tridente, un piccolo
tamburo, una pelle di daino, un mazza con un cranio
all'estremità, un'ascia o un fulmine. Talvolta indossa
dei serpenti come bracciali.
S’intende che, per la
specificità della presente ricerca, l’aspetto di
Shiva che più ci riguarda attualmente è quello di
Nataraja:
Il culto di Nataraja, così come tutti
gli altri, ha due significati, uno essoterico che ricorda la
vittoria sul demone Tripura e la selvaggia danza (la Tandava)
che Shiva fece sul suo corpo. Ma insieme questo episodio ha un
altro significato, esso rappresenta l'intera ciclicità
della manifestazione. Viene immaginato danzante nell'eterno
presente, è la sua danza che manifesta l'universo, lo
preserva e lo dissolve, e all'interno di questo ciclo Shiva
manifesta anche il ciclo samsarico, dove i singoli jiva
discendono sino alla definitiva liberazione. Vediamo come lui è
il centro, la sorgente di ogni movimento nel cosmo
(rappresentato dall'arco di fiamme). Lo scopo stesso della
danza è la liberazione dell'uomo dall'identificazione
col mondo della percezione (ignoranza metafisica o avidya), e
il luogo dove questa danza deve compiersi, Chidambaram,
chiamato il centro dell'universo, è proprio il cuore, il
centro dell'uomo, la sua interiorità. I gesti della
danza di Nataraja simboleggiano le cinque attività di
Shiva (pañcakrtya): la creazione è rappresentata
dal tamburo, la protezione dal gesto di rassicurazione della
mano, la distruzione dal fuoco, l'incarnazione del jiva nel
mondo dal piede saldo in terra, e infine la liberazione dal
piede sollevato.
Come si vede, non mancano nella danza
aspetti non solo filosofici ma addirittura teologici, talora
anzi ricondotti all’essenza più rarefatta della
teologia, cioè il misticismo. L’esempio più
noto è forse quello espresso dalle danze dei Sufi, gli
asceti dell’Islam. Essi cercano il ricongiungimento con
Dio anche danzando, in tal caso assumendo il nome di Dervisci
Rotanti. Il Sito Digilander. Libero. it/ Stebana illustra il
fenomeno dal punto di vista turco, anche se esempi simili si
ritrovano un po’ ovunque nel mondo islamico:
La
danza del cosmo. - In un tempo lontano, quando l'Europa era
ancora immersa nelle nebbie del medioevo, nella città
santa di Konya in Turchia, la confraternita Sufi, fondata da
Gialal-ud-Din Rumi, incominciò a danzare cantando le
lodi al Divino. Al suono del flauto, l'anima, e dei tamburi, il
tempo, i Dervisci iniziano la cerimonia togliendosi la
sopravveste nera, simbolo del basso, e con la loro veste
candida iniziano a ruotare senza posa. La mano destra, rivolta
in alto, è pronta a raccogliere la grazia divina; la
mano sinistra, rivolta in basso, la restituisce al mondo
terreno. Roteando vorticosamente le gonne si allargano in un
turbinio senza fine. La danza del cosmo.
Lo scopo è
il raggiungimento dell’estasi. Il danzatore
in
piedi con le braccia incrociate, incarna la figura che
significa l'unità di Dio, poi, iniziando a girare su se
stesso, allarga le braccia, il palmo della mano destra rivolto
al cielo come se stesse pregando e pronto a ricevere il Kerem-i
Ilahi - la parola di Dio - mentre il palmo della mano sinistra
(alla quale guarda), è girato verso il basso, a
significare il suo ruolo di medium tra la terra ed il cielo. La
musica è dominata dal nay (flauto verticale) che ha un
ruolo mistico nella musica turca, il kamanche (violino), i
koudoum (piccoli timpani in cuoio ricoperti di pelle di capra),
gli halile (piatti in rame) e i bendir (tamburi a cornice). Con
tali strumenti si esegue la musica del rito Mevlevi (ayìn),
elemento principale del Sema, concerto spirituale preconizzato
dal fondatore della confraternita, Mevlana Jalaad ad din Rumi
("il nostro maestro Jalaad del paese di Rum"), il
grande poeta mistico persiano del XIII sec. da cui prende nome
la confraternita Mevlevi.
Rumi non diede origine alla danza
religiosa presso i Sufi, poiché essa gli preesisteva, ma
le diede enorme importanza. Così scriveva: "Molte
strade portano a Dio. Io ho scelto quella della danza e della
musica".
In pratica l’intero
rituale allude
al Mirac, ovvero al viaggio spirituale
dell'uomo verso Dio, nel quale l'adepto si annulla in Allah
grazie alla preghiera e alla danza. Le rotazioni dei Dervisci
mimano il ritmo del cuore insieme all'abbraccio per tutti gli
esseri umani e tutte le creature, e portano alla comprensione
del "vero amore", l'unico ponte verso Dio.
Si
sarà notato che in questa danza (come del resto in quasi
tutte le altre) la musica riveste un ruolo basilare, ma anche
il canto, soprattutto corale, ha la massima importanza:
Si
dice che quando un derviscio raggiunge l'estasi, può
accadere che i suoi piedi non tocchino terra. La voce di un
flauto solitario li riporta lentamente alla realtà.
Queste danze, secondo i Dervisci Rotanti, sono il loro modo per
allontanare la mente da ogni contatto con le cose terrene e per
far si che le loro anime si allontanino dai corpi così
da potersi riunire a Dio. In Turchia la tradizione dei Dervisci
( una parola persiana che significa "monaco implorante"
) Sufi rappresenta un alto sviluppo della particolare arte di
comunicare con il divino attraverso la danza. L'educazione di
un derviscio è particolarmente ardua e consiste in 1001
giorni di penitenza e prevede il digiuno e la meditazione. Per
apprendere la loro danza, i Dervisci bloccano due dita del
piede al pavimento; in questo modo essi imparano a mantenere
regolare e disciplinata la loro rotazione. Mentre rotea il
Derviscio appoggia il suo peso sul piede sinistro e allorché
la rotazione acquista velocità, sulle dita del piede
sinistro, mentre la gamba destra dà slancio alla
rotazione. Per evitare il capogiro, il derviscio tiene la testa
leggermente inclinata verso destra e gli occhi fissi sul palmo
della mano sinistra.
E così si chiude, spero, il
cerchio aperto all’inizio, dove affermavo che la danza,
filosoficamente, è una narrazione intensamente
metaforica del cammino evolutivo dell’anima umana la
quale, partendo dalla materia, lentamente e faticosamente la
trascende fino a ricongiungersi con lo spirito. La protagonista
di ogni danza è l’anima, Psiche. E poiché
il Tempo di Psiche è senza tempo, in essa tutto
consussiste e nella danza come in ogni altra forma d’arte
ritroviamo, oggi più che mai, tutte le istanze di
Psiche, intatte come nel giorno della sua comparsa nel mondo.