Chiara Santagada


Dalla Serie APPUNTI DI FILOSOFIA - LA FILOSOFIA NASCOSTA

LA DANZA DI PSICHE - 1

“Chi pensa sia necessario filosofare deve filosofare e chi pensa non si debba filosofare deve filosofare per dimostrare che non si deve filosofare; dunque si deve filosofare in ogni caso o andarsene di qui, dando l'addio alla vita, poiché tutte le altre cose sembrano essere solo chiacchiere e vaniloqui” (Aristotele).


A volte la filosofia si nasconde talmente bene che riesce difficile ritrovarne le tracce. Nella danza, per esempio. Tanto che il ricercatore, di fronte alla scarsità di materiale specifico, potrebbe essere tentato di lasciar perdere, pensando che in fondo è possibile che non neppure esista una “Filosofia della Danza”. Ma poi incontra, quasi per caso, immagini e suoni che gli dicono tutt’altro e la spinta ad andare avanti non solo ritorna, ma si fa via via sempre più forte. Come sempre, ci si accorge presto che l’argomento presenta innumerevoli sfaccettature e che pertanto sarà indispensabile distinguere. Che cosa hanno in comune la Haka dei Maori con i Mamuthones di Sardegna o il balletto classico con le performance dello shamano? Che cosa unisce i riti dionisiaci alle danze funebri dell’antico Egitto, il sensuale tango argentino con la danza del ventre, le statiche posizioni dell’Estremo Oriente con le sfrenate tarantelle dell’Italia meridionale?


Un tuffo in una di esse, in un certo senso la madre di tutte le tarantelle, ci aiuterà a capire meglio qualcuno dei significati che si celano sotto l’abito apparentemente leggero di un ballo popolare. Stiamo parlando della pizzica pugliese, sulle cui connessioni con la cultura e la danza dell’antica Grecia sarà prima o poi il caso di ritornare.
Già il semplice testo di una canzone ci può dire molto:

PIZZICARELLA MIA
Pizzicarella mia, pizzicarella, / lu caminatu tou pare ca balla. / Te l'ura ca te vitti te 'mmirai, / nu segnu fici a menzu l'occhi toi. / Ca quiddhu fu lu segnu particolare / cu nu te scordi mai te l'amore tou. / Amore amore ci m'hai fattu fare, / te quinnicianni m'hai fatta 'mpaccire. / Te quinnicianni m'hai fatta 'mpaccire / te mamma e tata m'hai fatta scurdare. / Quantu t'amau amau lu core meu /
mo’ nu te ama chiui, se n'ha pentitu (1).

Va da sé che questa non è l’unica versione esistente. Altrove chi canta (a volte si tratta di un uomo, a volte di una donna) si chiede, per esempio,

A du te pizzicau ca nu se scerne? / Sutta lu giru giru te la suttana (2).

In una versione più completa si chiama in causa un uccelletto come messaggero d’amore (3):

Oh rondine ci rondini lu mare, / vieni chiù quai te ticu ddoi parole. / Cu te la tiru na pinna te l'ale, /
na lettera ni fazzu allu miu amore. / Portala bella bella ssutta all'ale / cu nu te scappa ddhu scrittu t'amore. / E quandu rivi addhai nu ni la ddare / se nu te duna lu sinceru amore (4).

La pizzica pugliese.


Nel semplice testo sono presenti alcuni dei temi che rendono utile per una filosofia della danza la pizzica pugliese: a cominciare dal tema della danza in se stessa, tanto connaturata in alcune persone da riuscire implicita nel più normale dei movimenti (l’andatura) al tema dell’amore che può diventare possessione oltre che ossessione. C’è anche ovviamente l’argomento principale, il tarantismo (e il suo collegamento con la sessualità), che reca in sé importantissimi riferimenti culturali (alla Grecia in primis), religiosi (esorcismo musicale e sciamanesimo), medici (sintomi isterici), musicali (trance dance, danza terapia), scientifici (etnografia, antropologia, filologia) e via dicendo. Di tutto ciò cercheremo di occuparci brevemente nel prosieguo, a dimostrazione del fatto che ciò che distingue la filosofia della danza dalle altre discipline teoriche che la concernono è che queste ultime si appagano, in generale, del significato dei fenomeni che investigano, mentre la filosofia è per vocazione costantemente alla ricerca del senso che tali significati tutti collega. Perché le scienze in quanto tali sono precipuamente analitiche, mentre la filosofia, in quanto pensiero o logos, è onnicomprensiva e quindi sintetica. Entrambe però sono indispensabili al progredire l’una dell’altra e, insieme, a quello della conoscenza. Posso comunque già anticipare che il senso della danza in generale mi sembra la narrazione. L’uomo attraverso lo strumento corpo narra se stesso e la propria avventura nella materia. Credo infatti che, su questa base, si possano distinguere quattro grandi categorie di danze:

1. d’amore o di corteggiamento
2. di guerra
3. di morte
4. sacre, comprendenti sia le danze magiche sia le spirituali.

LE DANZE D’AMORE
Nel primo gruppo vanno compresi alcuni aspetti della pizzica. Dal sito itcolivetti. le. it si ottengono significative precisazioni sulla “Pizzica de Core”:

E' una danza di corteggiamento, un’ espressione caratteristica della tradizione popolare salentina. I due ballerini durante la danza sono molto vicini ma non si toccano mai; tutto si svolge con scambi di sguardi provocatori, diversi movimenti che dimostrano il corteggiamento dell’uomo, mentre la donna corteggiata sfugge se questi prova ad avvicinarsi. Una particolarità di questa danza è il fazzoletto rosso che la donna sventola in modo provocatorio, con il quale sceglie volta per volta il suo compagno di ballo finché non lo dona alla persona che è stata in grado di rapirle il cuore.

Normalmente alla danza e alla musica nella Pizzica de Core si accompagna un testo, non di rado in lingua grika (5):

Agàpison, a’tteli n’agapisi, / mia chiatereddan ìcosi χronò / an ene icosipente mi tti telisi / pesti ti en’diammeno to cerò. / A’tte’nna piai to rodo na mirisi / piatto motti en’ìmiso aniftò. / To rodo toa en’desiderao, / motti ‘en ene niftò ce spampanao (6).

Un ulteriore elemento della pizzica d’amore è l’uso del fazzoletto (dal Sito Indiano Salentino):

Un tempo il ballo prevedeva anche l'invito con la consegna del fazzoletto da parte della persona che iniziava il ballo verso quella che con cui desiderava ballare; di questo uso c'è ancora traccia nella memoria degli anziani salentini. Lo stesso meccanismo di invito avveniva in tutta la regione e ancora oggi avviene in alcune aree della Basilicata e della Campania con apposito canto d'invito codificato. Nella pizzica si balla in coppia, non necessariamente formata da individui dello stesso sesso. A differenza di quanto molti immaginano, la pizzica tra uomo e donna non era affatto una danza di corteggiamento, o almeno non esclusivamente. Essa infatti si ballava soprattutto in occasioni private e familiari, ed in tali occasioni era molto probabile che a danzare si trovassero parenti anche molto stretti, o individui tra i quali intercorreva una grande differenza d'età. Così il ballo tra un fratello ed una sorella poteva diventare occasione di divertimento e scherzo, come quello tra un anziano e la sua nipotina poteva diventare un momento di apprendimento da parte della seconda dei ruoli, dei passi e dei codici tipici della danza. Tra due uomini invece spesso si creava più tensione, o meglio, competizione, ed il ballo diventava allora un momento di sfida in cui ci si confrontava, esibendole, su doti quali agilità, creatività e prestanza fisica. Un esempio di danza tra due uomini è riscontrabile nella tradizione ostunese, dove è molto facile vedere due uomini ballare insieme ed in cui uno dei due uomini (o a turno), si prende gioco dell'altro riproducendo passi e pose comici o caratteristici della danza femminile. Pochi e semplici sono i "passi base" tipici di questa danza, in cui più che i passi veri e propri sono le "intenzioni" e le emozioni dei ballerini (e naturalmente la loro capacità di farle emergere) a rendere magico ed affascinante il momento coreutico. Sui passi base poi - costituiti da un corpus di saltelli, su se stessi o in movimento, su due tempi o terzinati - i ballerini ci ricamano, anche inventandoli estemporaneamente, una gran varietà di passi e movimenti, che fanno oscillare la danza tra fasi di calma, di studio dell'altro o attesa a fasi più frenetiche caratterizzate da forti battiti dei piedi sul suolo (più tipici degli uomini), veloci e vorticosi giri su se stessi (caratteristici delle donne), brevi inseguimenti, allontanamenti e repentini avvicinamenti e incroci tra i due ballerini. Il tutto condito dall'euforia dei suoni e delle grida che si scatenano dalla ronda, ossia quel tipico cerchio, composto da musicisti, aspiranti ballerini o curiosi, che si forma spontaneamente dando vita al momento del ballo.



NOTE

1 “Pizzicarella mia, quando tu cammini sembra che danzi. Dal momento che ti ho vista ti ho subito ammirata. Ti ho fatto un segno speciale in mezzo agli occhi, che tu non possa mai scordarti di chi ami. Amore, amore, che mi hai fatto fare? Avevo quindici anni quando mi facesti impazzire, mi hai fatto dimenticare madre e padre. Quanto ti ha amato il mio cuore! Ora non ti ama più, se n’è pentito.
2 “Dove ti pizzicò, che non si vede? Sotto il girovita della sottana”.
3 Il tema dell’animale messaggero si ritrova nella canzone napoletana Lo Cardillo (1849): Sto criscenno no bello cardillo, / quanta cose ca ll'aggi''a 'mpará: / ha da ire da chisto e da chillo, / li 'mmasciate isso mm'ha da porta’! / Siente cca bello mio: llòco 'nnante / nc'è na casa, na nenna nce sta. / Tu la vide ca nun è distante: / chella nénna haje da ire a trova’. / / Si la truove ca stace dormenno, / pe' na fata, gué, non ‘a pigliá. / No rommore non fa’ co' li ppenne, / gué, cardi', tu ll'aviss’ a sceta’. / Si affacciata po' sta a lo barcone, / pe' na rosa ll'aviss''a piglia’. / Gué, cardi', vi' ca llá tu te stuone. / Va, vattenne cardi', nn'addura’. / / Si la truove ca face ll'ammore, / 'sto cortiello annascunnete cca. / 'Nficcancillo deritto a lo core / e lo sango tu mm'haje da porta’. / Ma si penza,vatte' chiano chiano, / zitto zitto te nce haje da azzecca’, / si afferra’ po' te vo' co' la mano, / priesto 'mpietto tu ll'haje da zompa’. / / Si te vasa o t'afferra cianciosa, / / tanno tu ll'haje da dire accossí: / "Lo patrone pe' te non reposa... / poveriello, pecché ha da mori’?" / T'accarezza, te vasa...ah, viato / / cchiù de me tu si' certo cardi'. / Si co' tico cagnarme mm'è dato, / voglio, doppo, davvero mori’. (“Il Cardellino. Sto allevando un bel cardellino. Quante cose gli voglio insegnare. Deve andare da questo e da quello a portare i miei messaggi. Senti, mio caro, un po’ più in là c’è una casa, ci abita una ragazza. Non è lontano, come vedi. Tu la devi andare a trovare. Se la trovi addormentata, potresti prenderla per una fata. Bada di non far rumore con le tue penne, potresti svegliarla. Se invece è affacciata al balcone, potresti scambiarla per una rosa. Attento, cardellino, a non rimanere stordito dal suo profumo. Vattene in fretta, non odorarla. Se la trovi che fa l’amore con un altro, nasconditi qua questo coltello, glielo devi ficcare nel cuore e poi portarmi il suo sangue. Ma se la trovi pensierosa, avvicinati a lei zitto zitto e se ti vuol afferrare con la mano tu velocemente balzale in seno. Se ti bacia o ti prende con grazia, allora devi dirle così: Il mio padrone a causa tua non trova pace. Poverino, perché deve morire?. Se lei ti accarezza e ti bacia … Ah cardellino, certo sei più fortunato di me. Se mi fosse concesso di essere al tuo posto, veramente, dopo, vorrei morire”).
4 “O rondine che voli sul mare, vieni più vicino che voglio dirti due parole. Voglio tirarti via una penna dall'ala, ci scriverò una lettera al mio amore. Portala per bene sotto le ali, che non ti scappi quello scritto d'amore. E quando arrivi da lei non glielo dare se non ti dona il sincero amore”.
5 Da Wikipedia. it: La minoranza linguistica greca d'Italia, così come riconosciuta dallo Stato, è composta dalle due isole linguistiche della Bovesìa in Calabria e della Grecia Salentina in Puglia, che di fatto costituiscono la totalità delle aree ellenofone esistenti in Italia. Il grecanico o griko, idioma praticato in queste comunità, è un dialetto (o gruppo di dialetti) di tipo neo-greco residuato probabilmente di una più ampia e continua area linguistica ellenofona esistita anticamente nella parte costiera della Magna Grecia. I greci odierni chiamano la lingua Katoitaliótika (Greco: Κατωιταλιώτικα, "Italiano meridionale") oppure, in riferimento al solo dialetto della Bovesìa, calabrese, anche se quest'ultimo può riferirsi eufemisticamente al pidgin (idioma derivante dalla mescolanza di lingue di popolazioni differenti, venute a contatto a seguito di migrazioni, colonizzazioni, relazioni commerciali) greco-italiano pure esistente nell'area. Il numero complessivo di coloro che ancora parlano la lingua grika in Italia è stimato intorno alle 20.000 unità.
6 “Se vuoi amare, ama una fanciulla di venti anni, se è di venticinque non la volere, dille che è passato il tempo. Se vuoi prendere la rosa profumata prendila quando è mezza aperta. Allora la rosa è desiderabile, non quando è aperta e spampanata”.


LA DANZA DI PSICHE 2


Il Ballo Tondo della Sardegna.


Come si è visto, non tutti gli studiosi concordano sul fatto che la pizzica sia una danza di corteggiamento. Personalmente ritengo invece che proprio questo sia il carattere che più apparenta le diverse tarantelle dell’Italia Meridionale e, in generale, dell’area mediterranea. Per esempio, dal Sito Sumasu. it ricaviamo un breve ma illuminante accenno relativo ai balli sardi che
di origine antichissima, possono essere distinti in due gruppi: rituali e di corteggiamento. I balli rituali, che mantennero il loro valore anche in era Cristiana fino al XVI, hanno come figura principale il cerchio ruotante. Le danze di corteggiamento si ballano in coppia e talvolta da un uomo accompagnato da due ballerine. I balli rituali presuppongono una partecipazione corale ed un passo di danza uguale per tutti; nelle danze di corteggiamento, invece, è il ballerino che esegue il passo più difficile. Le due aree culturali tradizionali dell'isola (la pastorale nel centro-nord e la contadina nel sud) ripropongono unitariamente il ballo rituale in cerchio ("su ballu tundu") con l'unica differenza nel passo; tuttavia esse si distinguono nettamente nelle danze di corteggiamento. Nelle zone pastorali il passo è decisamente saltellato; nell'area agricola ci si basa su passetti brevi e saltellati.

Ancora più pertinente alla presente ricerca, il Sito grecanico I Fonì Dikìma (articolo di Pasquale Casile), in cui troviamo notizie sulla viddhanèddha, ballo caratteristico della provincia di Reggio Calabria, lungamente a torto assimilato alla tarantella reggina, su cui si è scritto pochissimo e, soprattutto, senza che mai all’indagine musicologica della sua struttura ritmicomelodica e strumentale, facesse seguito quella storica, linguistica, letteraria e antropologica, volta a stabilire con minore approssimazione la sua ascendenza. A volere scorrere in rapida sequenza le principali informazioni già note agli esperti del settore, potremmo dire che la viddhanèddha si configuri come una danza circolare, a ritmo 6/8, a suddivisione ternaria, con due accenti ritmici di 3/8 ciascuno, intervallati da brevi pause. Ne sostengono lo schema ritmicomelodico due soli strumenti: la ceramèddha, erede del doppio aulos (oggi purtroppo quasi del tutto soppiantata dall’organetto diatonico), e il tamburèddhu, moderno continuatore del tympanon – strumenti entrambi di derivazione magnogreca (…) Entriamo nella specifico, iniziando, come siamo soliti fare, dall’analisi etimologica. Il termine viddhanèddha, proveniente dal calabrese viddhàna, “popolana”, qui in composizione col suffisso vezzeggiativo –èddha è da intendersi come “giovinetta”, “fanciulla”, “ragazza”. Protagonista di questo ballo pertanto è una ragazza che con grazia ed eleganza danza all’interno della rota, lo spazio coreutico di forma circolare che viene delimitato da tutti i partecipanti al ballo (suonatori inclusi). In grecanico infatti, il verbo chorègguo, “ballare”, equivale all’espressione dialettale fari rota, cioè, istituire un choròs, parola che designa a un tempo, come nell’antichità, sia il gruppo di danzatori che il luogo dove si danza (…) La ragazza danza in coppia con un altro giovane, ragion per cui, tra gli studiosi della tarantella “calabrese” e reggina, è invalsa l’errata opinione che la viddhanèddha sia una danza di corteggiamento. Le cose non stanno affatto così, e lo dimostreremo. Secondo noi, predominante nella viddhanèddha non è il motivo del corteggiamento, ma quello dell’inseguimento. Basta guardare la coreografia del ballo per rendersene conto: la ragazza cerca costantemente di sottrarsi all’altro danzatore, che l’insegue appressandosi ad essa più che può, fino al limite del contatto fisico, che è assai raro e non va mai oltre la presa delle mani. Durante il ballo il choròs rivolge ai due ragazzi la seguente frase d’incitamento: balla lu palumbu e la palumba, ossia stanno danzando i due colombi. In realtà però, sulla scena non v’è che un’unica colomba, poiché il ragazzo si è solo temporaneamente mimetizzato in un colombo che, presto, si rivelerà essere un infallibile uccello di rapina. La strategia della cattura prevede infatti che il giovane, al momento a lui più favorevole, usi il micidiale passu ‘ill’adornu che è un passo ad imitazione del volo del falco “quando questi – scrive il Polimeri – cerca di nnopiare la preda (affascinarla per poi piombarle addosso e ghermirla)”. La cattura è a questo punto inevitabile e alla ragazza non resta che lasciarsi – volontariamente – carpire e sfilare via dal collo il tipico foulard, detto muccaturi. La ragazza è così nzingata, “segnata”, e assegnata pubblicamente al giovane quale prossima sua sposa e nessuno nella comunità può più ignorare il fatto dell’avvenuta “cattura”. Tutto ciò accade da millenni nella Calabria greca: la “danza della colomba”, come noi abbiamo definito la viddhanèddha, non è che un rito di passaggio antichissimo, riguardante l’iniziazione femminile e la cui finalità era – e in alcuni casi ancora è – l’assegnazione delle spose all’interno della comunità. Orbene, si palesa in tal modo anche il simbolismo della colomba, sin dalla postura che la ragazza assume, tenendo le braccia sui fianchi con le palme delle mani all’esterno, a mo’ di ali. Il “ballo della colomba” nasce da una mitologia del quotidiano, dove ogni gesto è parte di un mitologema già codificato dall’uso rituale del linguaggio corporeo ed è quindi contemporaneamente espressione mimico-gestuale e sacra teofania. Nell’antica Locri le fanciulle/colombe appartengono ad una categoria speciale di animali sacri affidati alla custodia di Ferefassa, Persefone-colomba. A Locri infatti, Persefone non è una dea tra tante, ma la “Signora” della città. Sappiamo inoltre dalle fonti archeologiche che Persefone anche figurativamente è rappresentata con in mano una fassa, la colomba selvatica, simbolo di fedeltà. Nella viddhanèddha si cela la Kore locrese, la ragazza/figlia, che deve divenire gyne, donna/moglie. Nel rito della “danza della colomba” si compie attraverso la “cattura” anche il passaggio dell’autorità genitoriale: la ragazza/colomba ormai appartiene al ragazzo/falco, dallo stato selvatico è passata allo stato civile e insieme al suo compagno, rinascendo, riceve una nuova identità, divenendo parte essenziale della comunità. Lo rivela questo canto di Paracorio (frazione di Delia Nova), col quale concludiamo: E lu me beni si ndi jiu a la caccia, / e jiu a lu chianu di Santa Maria. / Nci mbatti na palumba janca e destra, / senza ferita lu sangu currìa. / S’affaccia ‘na signura a la finestra: / - “Cu mi ha ferutu la palumba mia? – / - “Signura, la palumba non è vostra, / - l’aju purtata di na longa via - / Cu’ vinu jancu nci lavai la testa, / Cu zuccaru e cannella la pascia (1). Il mio bene se n’è andato a caccia, è andato alla piana di Santa Maria. Si è imbattuto in una bella colomba bianca, il sangue scorreva senza alcuna ferita. Una signora si affaccia alla finestra: Chi ha ferito la mia colomba? – Signora, la colomba non è vostra, l’ho portata per una lunga via. Le ho lavato il capo con il vino bianco, l’ho nutrita con zucchero e cannella.


Anche da questo aperto riferimento al mondo animale si ricava la convinzione che le danze come la pizzica provengano da comportamenti umani vertiginosamente antichi, le cui radici primarie sono da ricercare nell’etologia animale. Non ho la possibilità di aprire qui una parentesi sul corteggiamento nelle diverse specie, che ci porterebbe verso orizzonti troppo vasti e più pertinenti, forse, alla Filosofia della Scienza che a quella della Danza. Basterà accennare alla vera e propria danza d’amore praticata dalle gru, anche perché essa è stata accostata alla cultura protogreca le cui influenze continuano ad esercitarsi sull’attuale folklore del nostro Sud.
Nel Sito Animali nel Mondo troviamo la descrizione zoologica della gru:

nome scientifico: Grus grus
taglia: 90-150 cm di lunghezza
peso: 5 kg circa
I gruidi sono uccelli molto caratteristici con zampe lunghe e collo lanciato. In volo (lo stormo si sposta con la tipica formazione a V), le gru hanno testa e collo protesi in avanti, al contrario degli aironi (ardeidi) che volano con il collo incurvato a S, ed emettono il tipico verso strombettante "kru" o " kri-kru". Le gru si presentano con un piumaggio grigio, la testa è bianca e nera con una macchia rossa sul vertice (2). Il lungo becco è circondato da un piumaggio nero che si allunga verso la gola, sulla nuca e sulla fronte; lateralmente agli occhi si prolunga una mascherina bianca. Le penne sopra la coda sono allungate e cascanti e terminano con un ciuffo dalle estremità più scure. I giovani si riconoscono per l'assenza di macchie scure sulla testa e per la coda meno "cespugliosa". La gru, al di fuori del periodo riproduttivo, manifesta delle abitudini gregarie molto intense, costituendo dei gruppi numerosi e grazie ai continui richiami sonori tutti i componenti si mantengono in contatto. Trascorrono l'inverno in luoghi tradizionali dell'Europa meridionale e nel Nord Africa. La Gru nidifica su di un vasto areale che va dalla penisola scandinava alla Siberia orientale, ma in passato esistevano aree riproduttive anche nell’Europa centro-meridionale, come ad esempio il Delta del Po. Nei quartieri di svernamento le gru si cibano prevalentemente di vegetali come bacche, cereali, patate e ghiande. Nei luoghi di riproduzione, come distese paludose e acquitrini, si nutrono anche di insetti e pesciolini (3). Le coppie sono stabili nel tempo e fedeli ai territori di nidificazione. Il nido, una piattaforma di materiale vegetale, viene costruito sul terreno al margine di laghi o paludi, preferibilmente in aree alberate e indisturbate. Depone di solito due uova che verranno incubate sia dal maschio che dalla femmina. Entrambi i genitori, inoltre, partecipano allo svezzamento dei piccoli.

Il comportamento delle gru si modifica però sostanzialmente durante la stagione degli amori, allorché si abbandonano ad elaborate e chiassose forme di corteggiamento comunemente chiamate danze (4). Ciò sembra in contraddizione con le abitudini monogamiche della specie, ma gli studi più recenti hanno dimostrato che le gru, la cui vita dura in media quattro o cinque decadi, non raramente cambiano partner. La loro elegante bellezza e le spettacolari abitudini amorose hanno procurato alle gru una grande fama nel mondo antico. In Giappone le donne dell’etnia Ainu eseguivano ancora all’inizio del ‘900 una danza ispirata alle gru, mentre in Korea qualcosa di analogo è tuttora in uso nel Tempio buddhista di Tongdosa. Nell’Arabia preislamica si venerava una Trinità femminile composta da Allat, Uzza e Manah, che erano chiamate le Tre Gru. In Grecia l’uccello (detto Γερανος, Gheranos) rientrava nel novero degli animali divinatori. Un esempio fondamentale della mitologia riguardante le gru può essere visualizzato nel Vaso François, custodito al Museo Archeologico di Firenze. Vi si trova dipinta la scena di un gruppo di giovani, maschi e femmine, che danzano presso una nave: sono i ragazzi ateniesi scampati al Minotauro che festeggiano la liberazione dalla morte nel labirinto cretese. Nella pittura si vede anche Teseo, l’eroe vincitore del mostro, che suona la lira mentre i fanciulli danzano un dietro l’altro. Gli abitanti di Delo, racconta Plutarco, ripetevano ancora quella danza e la chiamavano géranos, la “danza delle gru”, perché l’andirivieni dei giovani che, tenendosi per mano, imitavano il cammino compiuto per entrare e riuscire dal labirinto, somigliava ai saltelli sinuosi e al volo di gruppo di questi uccelli migratori.

A quanto sembra i ragazzi salvati da Teseo eseguirono la danza mentre ritornavano ad Atene: essa dunque rappresentava la vittoria sul Labirinto e non è la sola cerimonia coreutica che si collega al mistico percorso spiraliforme. Nel Sito Il Tempio di Pera. it viene citato il mitologo Robert Graves che nel suo capolavoro La Dea Bianca parla di una danza pasquale del labirinto che sopravvive ancora in Gran Bretagna, una danza "eseguita nei villaggi rurali: i labirinti vengono chiamati Troy Town in Inghilterra"- dice l'autore-"e Caer-droia in Galles. Tali danze furono così chiamate probabilmente dai Romani, che conoscevano il "gioco di Troia", una danza labirintica dell'Asia Minore eseguita dai giovani patrizi di Roma nei primi anni dell'Impero in memoria della loro origine troiana; ma Plinio dice che la danzavano anche i bambini latini. A Delo era chiamata "la danza del corvo" e si diceva celebrasse la fuga di Teseo dal labirinto. La danza del labirinto sembra essere giunta in Britannia dal Mediterraneo orientale con gli invasori neolitici del III millennio a.C., dal momento che in Scandinavia e nella Russia nord-orientale si trovano rozzi labirinti di pietra dello stesso tipo di quelli inglesi. Su una lastra di pietra , presso Bosinney, in Cornovaglia, ne è scolpito uno su un blocco di granito rinvenuto nelle Wicklow Hills (...). Anche questi labirinti si conformano al medesimo modello: il labirinto di Dedalo delle monete cretesi."


E le nostre amiche gru? No, Graves non si dimentica di loro:

Più avanti, Graves riprende l'argomento parlando delle gru, uccelli sacri ad Atena: "Plutarco parla di una "danza delle gru" introdotto a Delo da Teseo, della quale però si sa soltanto che veniva eseguita intorno a un altare sormontato da corna e che rappresentava la spirale doppia del Labirinto. La mia ipotesi è che imitasse la danza di corteggiamento delle gru e che ogni movimento consistesse di nove passi e un salto" Inoltre, si parla di una cosa simile anche nel capitolo "Il dio dal piede di toro", in cui Graves cita la pernice, "un uccello che migra in primavera, sacro alla dea dell'amore a causa della sua fama di lascivia ( ...) e la danza con ogni probabilità mimava la danza d'amore che il maschio esegue .Si tratta di una danza di guerra eseguita dinanzi ad un pubblico di femmine: i maschi svolazzano in cerchio con andatura claudicante, uno sperone sempre pronto a colpire la testa di un rivale"; l'autore dice anche che le pernici si concentrano molto in questa danza tanto da non rendersi conto di nulla. Continua Graves: " Sembra dunque che nel Pesah (tipo di danza rituale) il culto della pernice sia stato soppiantato da quello del toro e che il Minotauro cui si sacrificavano giovani di ambo i sessi (provenienti da Atene e da altri luoghi) avesse un tempo rappresentato la pernice che attirava le sue vittime al centro del labirinto nella boscaglia dove esse dovevano eseguire la loro danza di morte. Il Minotauro era il centro di una rappresentazione rituale inizialmente in onore della dea-Luna, la lasciva pernice femmina e che in certe parti di Creta era la madre e l'amante dell'eroe solare Talo.La danza della pernice maschio claudicante diventò così una cerimonia in onore delle Dea-Luna Pasifae (...)." E come ci dice Graves, prove su questo tipo di danza si trovano anche in Omero e in Luciano ( in "Sulla danza" ).

Robert Graves non è stato l’unico antropologo a provare interesse per le danze d’amore nel mondo animale. Nel Sito sopra nominato si cita anche Brian Bates e il suo libro La Sapienza di Avalon,

dove parla di una danza simile ( riservata agli uomini ma sorvegliata dalle donne in quanto Dee del labirinto ) che fino a poco tempo fa esisteva ancora presso una società tribale dell'età della pietra, la cultura Malekulan (5), in cui, durante l'iniziazione sciamanica, l'aspirante sciamano doveva dimostrare di conoscere il modo prescritto per entrare nella caverna dove gli sarebbero stati insegnati i segreti. Lo sciamano in trance avrebbe dovuto raggiungere la caverna vicino al mare, grazie agli spiriti dei ragni; all'ingresso della caverna, Le-Hev- Hev, la grande Dea ragno ( filatrice del destino e "madre di rinascita" ) avrebbe tracciato il disegno del labirinto e quando l'iniziando fosse giunto, ne avrebbe cancellato una metà: l'uomo avrebbe dovuto dimostrare di saperlo completare. Solo a quel punto avrebbe appreso i misteri e sarebbe rinato sapiente.

NOTE

1 “Il mio bene se n’è andato a caccia, è andato alla piana di Santa Maria. Si è imbattuto in una bella colomba bianca, il sangue scorreva senza alcuna ferita. Una signora si affaccia alla finestra: Chi ha ferito la mia colomba? – Signora, la colomba non è vostra, l’ho portata per una lunga via. Le ho lavato il capo con il vino bianco, l’ho nutrita con zucchero e cannella”.
2 La descrizione non riguarda tutte le specie.
3 E non disdegnano i piccoli roditori.
4 Da Wikipedia. org.
5 Dal Sito Estate Incantata. it.
6 Isole Ebridi, Scozia.


LA DANZA DI PSICHE 3


DANZE DI GUERRA


Nel mondo animale le leggi di natura vogliono che all’amore – alla riproduzione – abbiano accesso gli individui più adatti alla prosecuzione della specie. Non desta dunque meraviglia riscontrare che alle danze di corteggiamento si accompagnano spesso quelle di lotta e di guerra, vista quest’ultima, etologicamente, come una difesa organizzata del territorio comunitario. Se risulta difficile ritrovare vere e proprie danze di guerra nel mondo animale, quelle di lotta sono invece abbastanza frequenti. Ricordiamo il “balletto dei cammelli” (1) e il micidiale balletto dei mustelidi, piccoli e feroci predatori come i furetti e gli ermellini.


Molto diverse appaiono per contro le danze di guerra vere e proprie, di cui si trovano tracce più o meno ovunque: nei Paesi Arabi, in Russia e nel resto d’Europa, in Africa, nelle Americhe, in Oceania e nel Medio e Lontano Oriente. In particolare va citata la Haka Maori, divenuta famosa perché praticata dalla squadra di rugby della Nuova Zelanda prima di ogni incontro sportivo, anche se bisogna dire che secondo alcuni esperti si tratta piuttosto di una danza sacra perché nel testo che accompagna i movimenti – a dire il vero piuttosto intimidatori – si invoca l’aiuto divino per poter affrontare con coraggio e vittoriosamente gli avversari. Altre importanti danze di guerra sono quelle dei Nativi del Nord America, rese celebri dai film western, e la Capoeira brasiliana, nata tra gli schiavi di origine africana e ora divenuta un’arte molto spettacolare in cui si fondono tattiche di combattimento, musica ed equilibrismi da togliere il fiato.
Un caso a se stante di danza di guerra è quella delle spade, che attraversa l’intera storia mondiale, nel tempo e nello spazio, in certi casi anche in versione femminile. Si tratta comunque di battaglie simulate, di cui si conoscono precedenti illustri nella classicità, come la pirrica in Grecia e la saltatio a Roma.
Quanto è stato detto finora ha dimostrato soprattutto la connessione profonda che sussiste tra le danze popolari e i comportamenti amorosi e sociali sia della specie umana sia di quelle animali, ma siccome amore e morte nella psiche sono sempre strettamente associati era giusto aspettarsi di ritrovare accanto alle danze di corteggiamento e di guerra le danze di morte e addirittura le danze della morte stessa. Le prime (funebri o funerarie) sono bene attestate nel passato, lontano ma anche recente, al punto che se ne incontrano tuttora interessanti tracce, per esempio in Italia dove

nelle valli Staffora, Curone e Borbera, vale a dire sui versanti pavese e alessandrino delle Quattro Province, la "Povera donna" è un ballo arcaico tuttora frequentemente eseguito in occasione delle numerose feste tradizionali "da piffero" che si svolgono nei paesi. Tuttavia, solo a Cegni, nell'alta val Staffora, il ballo ha conservato la sua cornice rituale di carattere carnevalesco. Il 16 agosto, il ballo viene eseguito durante il cosiddetto "Carnevale bianco", in un contesto rappresentativo e folcloristico, mentre, da oltre vent'anni, ha recuperato una dimensione funzionale attraverso la sua ricollocazione in periodo invernale (il sabato grasso), per iniziativa delle nuove generazioni di suonatori e ballerini e con significativo seguito da parte degli abitanti di Cegni come pure di appassionati e cultori della tradizione locale provenienti da altri luoghi. Il ballo della povera donna si colloca sull'orizzonte dei riti funebri pre-cristiani confluiti nella cultura carnevalesca, e presenta significative analogie con analoghe raffigurazioni coreutiche tuttora viventi. In Liguria, a Taggia sulla riviera di Ponente, nel mese di luglio in occasione della festa della Maddalena, u mas-ciu e a Lena inscenano il Ballo della morte dei Maddalenanti. Nella bolognese val Savena, il violino di Melchiade Benni suscitava il Barabein, come lo Scuciòl ballo di rinascita carnevalesca. Nucleo coreutico e simbolico è, in entrambi i casi, una danza di corteggiamento, la morte apparente della maschera maschile, nel caso del Barabein, femminile nel caso del Ballo della Morte, con il conseguente lamento del compagno attorno alla figura inerte del defunto coniuge, lamento accompagnato da una gestualità ambigua, tra il compianto e lo scherno; segue il repentino ritorno in vita del finto morto, ed il prosieguo della danza interrotta. Ancora, in tempo di carnevale, ballano il viei e la vieio della beò di Blins (Bellino), in provincia di Cuneo, e qui sarà la vecchia a stramazzare al suolo interrompendo la danza con il vecchio patriarca della famiglia carnevalesca, per poi tornare in vita dopo l'intervento di un grottesco medico, e riprendere l'interrotta danza suggellando il passaggio armonizzante di barriere di legno frapposte al cammino della comunità. Nella trentina valle dei Mòcheni, etnìa germanica, il bècio e la bècia intervallano il loro percorso di visita augurale alle case del paese con la danza che vede le due maschere alternarsi nell'inscenare morte e resurrezione, ogni volta lasciando scaturire dalle vesti un grottesco testamento, topos tipicamente carnevalesco (2).

Clusone, Danza Macabra.


Un altro tipo di ballo collegato alla morte è la Danza Macabra, un tema iconografico tardo medievale nel quale è rappresentata una danza fra uomini e scheletri.
Gli scheletri sono una personificazione della morte, mentre gli uomini sono solitamente abbigliati in modo da rappresentare le diverse categorie della società dell'epoca, dai personaggi più umili, come contadini e artigiani, ai più potenti, come l'imperatore, il papa, principi e prelati.
Il soggetto ha la funzione di memento mori e, rispetto ai soggetti apocalittici più diffusi nell'alto medioevo, come le rappresentazioni del giudizio universale, esprime una visione più individualistica della morte e talvolta anche una certa ironia nei confronti delle gerarchie sociali dell'epoca. È importante notare che con il tempo la figura della Morte come agente della volontà divina scompaia, lasciando iconograficamente soltanto i cadaveri, simboli del conturbante richiamo dell'aldilà, laicizzando l'ideale della morte stessa. Questa parentesi però dura per poco tempo (…)
La diffusione del tema, assieme ad un certo compiacimento nella rappresentazione di scheletri e di morti, è stata messa in relazione con la grande peste del 1348 (…) I dipinti dedicati a questo tema sono visitabili in varie località d'Europa: Italia, Istria, Francia, ecc (3).

La morte ci introduce nel prossimo settore, quello delle danze magiche e sacre. Riflettendo sul fatto che la magia è il comportamento tipicamente umano con cui si cerca di influire non razionalmente sulla realtà, non stupisce che tanto spesso anche la danza abbia tentato tale strada, intersecando quella – più nobile e (forse) più disinteressata del sacro.


Segnaliamo come danza più propriamente magica la apotropaica contro i malefici, mentre la sciamanica appare più complessa e diversificata data la grande quantità di pratiche cui era (ed è) tenuto lo sciamano per la sua funzione di mediatore tra il mondo degli uomini e quello degli spiriti. Sono quindi ovvi i punti di contatto con la danza sacra che da sola ha offerto e tuttora offre argomenti sufficienti a riempiere migliaia di volumi. Come disciplina antropologica, infatti, dà spazio allo studio dell’uomo in quanto microcosmo inserito nel macrocosmo regolato dalle leggi del Kosmos e insidiato da quelle del Chaos. In tale grandiosa dinamica la danza, soprattutto quando ricorre scientemente alle figure simboliche della geometria sacra, diventa un intervento diretto con cui l’uomo imita e sostiene il bene contro il male. Non per caso le mitologie di tutto il mondo possiedono un proprio dio della danza, spesso affiancato da divinità comprimarie ma anche inteso come Entità somma, ciò che si verifica ad esempio con Shiva, che danzando crea e distrugge gli universi. Nell’Induismo Shiva è conosciuto anche come Nataraja, il Signore della Danza, anche se in realtà la sua figura risulta, anche ad un’analisi superficiale, di gran lunga più complessa, come viene espresso assai bene nel Sito Vedanta. it:

Egli è insieme il distruttore e il restauratore, il primo degli asceti e il simbolo della sfrenata sensualità, è un benevolo pastore di anime e un pericoloso tentatore, è l'infanticida che uccide il figlio che la moglie Parvati ha creato dagli umori del proprio corpo, affinché ci sia qualcuno che tenga lontani i disturbatori, ma è anche quello che lo risuscita, una volta compreso l'errore, donandogli al testa di elefante e così la sapienza. Alcuni studiosi hanno visto nella sua figura la tipica tendenza nell'Induismo di racchiudere in un'unica figura ambigua delle qualità complementari.


Naturalmente una divinità così multiforme non poteva non essere rappresentata che da una altrettanto importante varietà di simboli:

La cavalcatura di Shiva, nonché l'animale a lui dedicato, è il toro, Nandi. In ogni tempio di Shiva, di fronte al santuario principale, esiste una scultura di Nandi. Di solito nei templi e negli altari domestici, Shiva è adorato nella forma del lingam. A seconda del culto in cui viene rappresentato Shiva, nella sculture e nelle immagini, è di color bianco o del biancastro colore delle ceneri, con il collo blu (perché bevve il veleno di Vasuki per evitare la distruzione dell'umanità). I suoi capelli sono arrotolati e raccolti (jatamakuta) sulla somità del capo, adornati con la luna crescente e il fiume Gange. Ha quattro o cinque o tre occhi, con il terzo a simboleggiare la conoscenza interiore, ma capace di distruggere col fuoco ogni cosa quando rivolge o sguardo verso l'esterno. Indossa una ghirlanda di crani umani e un serpente circonda il suo collo. Ha due o quattro mani che impugnano un tridente, un piccolo tamburo, una pelle di daino, un mazza con un cranio all'estremità, un'ascia o un fulmine. Talvolta indossa dei serpenti come bracciali.

S’intende che, per la specificità della presente ricerca, l’aspetto di Shiva che più ci riguarda attualmente è quello di Nataraja:

Il culto di Nataraja, così come tutti gli altri, ha due significati, uno essoterico che ricorda la vittoria sul demone Tripura e la selvaggia danza (la Tandava) che Shiva fece sul suo corpo. Ma insieme questo episodio ha un altro significato, esso rappresenta l'intera ciclicità della manifestazione. Viene immaginato danzante nell'eterno presente, è la sua danza che manifesta l'universo, lo preserva e lo dissolve, e all'interno di questo ciclo Shiva manifesta anche il ciclo samsarico, dove i singoli jiva discendono sino alla definitiva liberazione. Vediamo come lui è il centro, la sorgente di ogni movimento nel cosmo (rappresentato dall'arco di fiamme). Lo scopo stesso della danza è la liberazione dell'uomo dall'identificazione col mondo della percezione (ignoranza metafisica o avidya), e il luogo dove questa danza deve compiersi, Chidambaram, chiamato il centro dell'universo, è proprio il cuore, il centro dell'uomo, la sua interiorità. I gesti della danza di Nataraja simboleggiano le cinque attività di Shiva (pañcakrtya): la creazione è rappresentata dal tamburo, la protezione dal gesto di rassicurazione della mano, la distruzione dal fuoco, l'incarnazione del jiva nel mondo dal piede saldo in terra, e infine la liberazione dal piede sollevato.

Come si vede, non mancano nella danza aspetti non solo filosofici ma addirittura teologici, talora anzi ricondotti all’essenza più rarefatta della teologia, cioè il misticismo. L’esempio più noto è forse quello espresso dalle danze dei Sufi, gli asceti dell’Islam. Essi cercano il ricongiungimento con Dio anche danzando, in tal caso assumendo il nome di Dervisci Rotanti. Il Sito Digilander. Libero. it/ Stebana illustra il fenomeno dal punto di vista turco, anche se esempi simili si ritrovano un po’ ovunque nel mondo islamico:

La danza del cosmo. - In un tempo lontano, quando l'Europa era ancora immersa nelle nebbie del medioevo, nella città santa di Konya in Turchia, la confraternita Sufi, fondata da Gialal-ud-Din Rumi, incominciò a danzare cantando le lodi al Divino. Al suono del flauto, l'anima, e dei tamburi, il tempo, i Dervisci iniziano la cerimonia togliendosi la sopravveste nera, simbolo del basso, e con la loro veste candida iniziano a ruotare senza posa. La mano destra, rivolta in alto, è pronta a raccogliere la grazia divina; la mano sinistra, rivolta in basso, la restituisce al mondo terreno. Roteando vorticosamente le gonne si allargano in un turbinio senza fine. La danza del cosmo.

Lo scopo è il raggiungimento dell’estasi. Il danzatore

in piedi con le braccia incrociate, incarna la figura che significa l'unità di Dio, poi, iniziando a girare su se stesso, allarga le braccia, il palmo della mano destra rivolto al cielo come se stesse pregando e pronto a ricevere il Kerem-i Ilahi - la parola di Dio - mentre il palmo della mano sinistra (alla quale guarda), è girato verso il basso, a significare il suo ruolo di medium tra la terra ed il cielo. La musica è dominata dal nay (flauto verticale) che ha un ruolo mistico nella musica turca, il kamanche (violino), i koudoum (piccoli timpani in cuoio ricoperti di pelle di capra), gli halile (piatti in rame) e i bendir (tamburi a cornice). Con tali strumenti si esegue la musica del rito Mevlevi (ayìn), elemento principale del Sema, concerto spirituale preconizzato dal fondatore della confraternita, Mevlana Jalaad ad din Rumi ("il nostro maestro Jalaad del paese di Rum"), il grande poeta mistico persiano del XIII sec. da cui prende nome la confraternita Mevlevi.
Rumi non diede origine alla danza religiosa presso i Sufi, poiché essa gli preesisteva, ma le diede enorme importanza. Così scriveva: "Molte strade portano a Dio. Io ho scelto quella della danza e della musica".


In pratica l’intero rituale allude

al Mirac, ovvero al viaggio spirituale dell'uomo verso Dio, nel quale l'adepto si annulla in Allah grazie alla preghiera e alla danza. Le rotazioni dei Dervisci mimano il ritmo del cuore insieme all'abbraccio per tutti gli esseri umani e tutte le creature, e portano alla comprensione del "vero amore", l'unico ponte verso Dio.

Si sarà notato che in questa danza (come del resto in quasi tutte le altre) la musica riveste un ruolo basilare, ma anche il canto, soprattutto corale, ha la massima importanza:

Si dice che quando un derviscio raggiunge l'estasi, può accadere che i suoi piedi non tocchino terra. La voce di un flauto solitario li riporta lentamente alla realtà. Queste danze, secondo i Dervisci Rotanti, sono il loro modo per allontanare la mente da ogni contatto con le cose terrene e per far si che le loro anime si allontanino dai corpi così da potersi riunire a Dio. In Turchia la tradizione dei Dervisci ( una parola persiana che significa "monaco implorante" ) Sufi rappresenta un alto sviluppo della particolare arte di comunicare con il divino attraverso la danza. L'educazione di un derviscio è particolarmente ardua e consiste in 1001 giorni di penitenza e prevede il digiuno e la meditazione. Per apprendere la loro danza, i Dervisci bloccano due dita del piede al pavimento; in questo modo essi imparano a mantenere regolare e disciplinata la loro rotazione. Mentre rotea il Derviscio appoggia il suo peso sul piede sinistro e allorché la rotazione acquista velocità, sulle dita del piede sinistro, mentre la gamba destra dà slancio alla rotazione. Per evitare il capogiro, il derviscio tiene la testa leggermente inclinata verso destra e gli occhi fissi sul palmo della mano sinistra.

E così si chiude, spero, il cerchio aperto all’inizio, dove affermavo che la danza, filosoficamente, è una narrazione intensamente metaforica del cammino evolutivo dell’anima umana la quale, partendo dalla materia, lentamente e faticosamente la trascende fino a ricongiungersi con lo spirito. La protagonista di ogni danza è l’anima, Psiche. E poiché il Tempo di Psiche è senza tempo, in essa tutto consussiste e nella danza come in ogni altra forma d’arte ritroviamo, oggi più che mai, tutte le istanze di Psiche, intatte come nel giorno della sua comparsa nel mondo.