La crisi come shock terapeutico necessario

Appunti presi ascoltando Serge Latouche, Susan George e Paolo Cacciari a un incontro organizzato a Napoli dall’Istituto italiano di Studi Filosofici dal titolo: Mar Comune. Scuole del Mediterraneo di fronte alla sfida dei Beni Comuni, cui ho partecipato insieme a un folto e attento gruppo di giovani in rappresentanza dei licei di Napoli, Amman, Ramallah, Fès, Il Cairo, Antalya.


La crisi è alla fine arrivata. Questa è una buona notizia, perché ad essere colpiti sono indicatori come il Pil, la cui crescita significa ormai quasi soltanto quanta natura è stata distrutta. La crisi  offre l’opportunità di liberarci da un modello di sviluppo che produce tossicodipendenza da ossessione del lavoro, coazione alla crescita e da un modello di consumi malato. Questo modello ci ha portato a una forma di schizofrenia per uscire dalla quale serviva uno shock. Quella che oggi serve è  infatti una pedagogia della catastrofe.

Lo sviluppo delle attività umane, secondo una logica di crescita infinita di beni e servizi generata dal modello capitalistico dominante,  sta semplicemente distruggendo le specie. A essere a rischio oggi è l’uomo stesso. 

Quella in corso, nella storia del pianeta, è la sesta emergenza di una scomparsa così estesa delle specie. La quinta risale a 64 milioni di anni fa,  allora scomparvero i dinosauri.  Così continuando, gli esperti prevedono lo scioglimento dei ghiacciai dell’Artico entro il 2015, con effetti catastrofici per l’intero pianeta. 

L’Occidente, a forza di crescere, ha spinto la sua impronta del 40% al di sopra di quella sostenibile. E questo modello di impronta insostenibile si sta estendendo dovunque. Perfino il ministro cinese dell’economia ha recentemente affermato che a un 10% di crescita del Pil di quel Paese corrisponde un 10% in più di distruzione del patrimonio naturale (acqua, aria, foreste, suolo). 

Ad essere oggi posto in stato d’accusa è il modello di crescita in sé. E non c’è nulla di peggio per una società che si è edificata sui pilastri del lavoro e della crescita, del ritrovarsi all’improvviso  senza lavoro e senza crescita. 

Va anche ricordato che il mondo, in quantità e valori assoluti, non è mai stato così ricco come oggi. Secondo un recente rapporto di Merrill Linch, attualmente 10 milioni di persone possiedono ricchezza monetaria per un valore di 41 triliardi di dollari! (che, è bene ricordarlo, significa 41 accompagnato da dodici zeri…).

In questi anni  recenti il modello economico-finanziario dominante ha pompato denaro dal basso verso l’alto della società. Negli ultimi 50 anni, il rapporto di ricchezza disponibile tra Nord e Sud è passato da 20 a 1 a 70 a 1.  Quel che è peggio, mentre nel secolo scorso essere poveri significava mantenere comunque una dignità e una relativa ma concreta capacità di cavarsela, oggi i poveri sono stati trasformati in miserabili ridicolizzati dai parametri di giudizio dominanti e resi inetti  di fronte alle difficoltà. 

Questa crisi, senza cambiamenti adeguati, colpirà sempre di più quelli che sono  già poveri. Nel prossimo  futuro ci saranno nel mondo 10 milioni di nuovi disoccupati, così come  ci saranno più malattie, sfruttamento, schiavitù, miseria, infelicità.  Ma lo squilibrio e le disuguaglianze cui siamo arrivati sono tali che se tutti vivessero con l’impronta devastante dei Paesi ricchi sarebbero necessarie le risorse equivalenti alla disponibilità di  altri cinque globi terrestri.

Anche la sinistra, sia in versione moderata che radicale, è caduta nella trappola del mito della crescita infinita della torta. Ha ritenuto che bastasse far  crescere il Pil perché della torta sempre più abbondante ci  fosse un pezzo per tutti. Lo stesso sviluppo recente dell’economia virtuale ha semplicemente contribuito a prolungare il mito della crescita infinita della torta. La quale non è solo cresciuta oltre l’impronta ambientale sostenibile,  ma alla fine è anche risultata avvelenata (per l’inquinamento, la disuguaglianza e l’ingiustizia crescenti).

Insomma, la crescita è diventata una prigione/religione totalitaria. Per liberarsene è necessario:

Ritrovare la misura di una impronta ecologica sostenibile

Ridurre i trasporti

Rilocalizzare  le attività secondo criteri di risparmio energetico e minimo impatto ambientale

Ripristinare forme di agricoltura contadina

Trasformare il valore aggiunto della produttività in aumento dei posti di lavoro e in riduzione dell’orario

Rilanciare i beni relazionali (scambi, doni, reciprocità, ospitalità, convivialità, cooperazione)

Ridurre lo spreco di energia

Restringere fortemente lo spazio pubblicitario vettore di una ideologia di crescita sviluppista e consumista che infesta e colonizza l’immaginario a partire dall’infanzia

Riorientare la ricerca tecno-scientifica

Soldi alle banche? Solo a patto di precise garanzie nel loro utilizzo e di rispetto di regole etiche e socialmente responsabili. Perché è assolutamente necessario…

Riappropriarsi collettivamente del denaro


E per rovesciare le tendenze distruttive in atto è altresì necessario:

Smettere di pensare i territori come contenitori di risorse da sfruttare economicamente (miniere, cave, suolo edificabile all’infinito, agricoltura intensiva, capannoni industriali, ecc.), da avvicinare e trattare invece come luoghi dotati di identità peculiari, valenze paesistiche e storico-culturali preziose, titolari quindi di statuti e diritti  come  genius loci

Pensare alla città come organismo complesso e funzionale alla vita di relazione tra persone, capace di creare coesione e identità comunitaria

Pensare al territorio come bene comune sottratto alla logica mercantile, spazio aperto pubblico e partecipato

E’ questo il momento di liberarci dalla gabbia ideologica di una costrizione a una crescita infinita.  Attenzione però che decrescita non significa affatto crescita negativa.  La decrescita non è e non vuole essere un nuovo modello, piuttosto una matrice necessaria ad individuare le alternative possibili al modello catastrofico attuale. Essa non è una proposta di ritorno all’indietro rispetto al modello di crescita oggi dominante,  perché ambisce a molto meglio e di più, a proporsi cioè come un Tao, un impegno a cambiare il mondo che ha a che fare non tanto o soltanto con il benessere materiale, quanto con l’arte della gioia di vivere. Perché quello di cui oggi c’è assoluto bisogno  è – come recitava il titolo di un bel libro degli anni Settanta di Sergio Bologna – un Paese capace di futuro.

Poi, preso atto della buona novella, sceso da una via forse non a caso intitolata  Monte di Dio,  la conferma solenne  che di buona novella si trattava l’ho ricevuta imboccando via Toledo, dove ho incrociato un gruppo vociante di bambinetti neri, gialli, olivastri e bianchi sui cinque/sei anni i quali, accompagnati dal loro maestro, in preda a una gioia incontenibile  ridevano  guardando verso il cielo. La luna! La luna!  gridavano rapiti, e in effetti sù in alto, nel cielo di un azzurro rosato, occhieggiava dopo una tediosa giornata di pioggia  un  quarto di luna tremolante  . E a me è sembrato il miglior auspicio,  dentro il sovraccarico  formicolante e caotico  delle vie di Napoli,  del travaglio di una  metamorfosi  probabilmente  giunta al suo compimento. 


Gian Carlo Marchesini